di Alfredo Lacerenza
MOBBING
Introduzione
Il mobbing è un fenomeno che si sta diffondendo nella società occidentale, in particolare in quelle Nazioni più industrializzate e che richiedono una maggiore competitività, negli ultimi anni anche se è stato teorizzato non più tardi di venti anni fa.
Il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob” (attaccare, accerchiare), infatti consiste in una serie di attacchi sistematici (abusi, oltraggi e soprusi) esercitati dai diretti superiori o dai colleghi (i mobber) contro un lavoratore che viene così isolato (il mobbizzato) e che si vedrà costretto a ritirarsi ed entrare nel ruolo di “indesiderato”.
Non esiste un luogo fisico e mentale del posto di lavoro in cui il lavoratore viene risparmiato dal mobbing, e non esiste un lavoratore che può esserne indenne: in questo il mobbing è democratico, può colpire tutti, a qualsiasi livello gerarchico e più aumenta la competitività sociale più le strategie trovano un terreno fertile.
Ma il mobbing non è solo uno strumento per far cambiare di ufficio ad una persona indesiderata dal gruppo o da singoli individui è anche un’ottima strategia in mano alle aziende per allontanare elementi scomodi od in esubero, costringendoli a licenziarsi senza dovere andare incontro ad alcuna sanzione. I colleghi di lavoro utilizzano invece lo strumento mobbing per eliminare dalla propria strada quegli elementi che possono essere concorrenzialmente pericolosi per una propria crescita sociale ed economica.
Il mobbing può anche essere definito come una strategia di terrorismo psicologico, continuo e martellante, e di prevaricazione crescente sull’altro, e può portare a danni a volte irreversibili per l’equilibrio psicofisico del mobbizzato (non dimentichiamo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce per stato di salute “il benessere psicologico, sociale e fisiologico della persona”), per questo motivo già in alcune Nazioni (quali Svezia e Germania) esiste una legislazione che riconosce il mobbing come malattia professionale e causa di infortuni sul lavoro.
Negli ultimi tempi anche l’Italia cerca di allinearsi a questi Paesi e recentemente sono stati eseguiti degli studi in base alla quale risulterebbero circa un milione di lavoratori colpiti dal mobbing.
Il mobbing non può, però, essere considerato una malattia ma bensì una sindrome causata da una continua pressione psicologica condotta con una serie costantemente ripetuta di piccoli attacchi personali, di varie forme ed intensità, ed è proprio la sistematicità con cui avvengono questi attacchi ad essere la peculiarità della sindrome da mobbing dagli altri scontri che possono avvenire nel luogo di lavoro
Il fatto che il mobbing debba essere considerato una sindrome non significa sminuirne l’importanza, anzi ne fa accrescere la pericolosità: come è vero che non si muore di AIDS, anche esso una sindrome, ma delle malattie a questo correlate è anche vero che i danni che il mobbizzato subisce non sono per lo più evidenti ma appaiono come disturbi apparentemente slegati tra di loro.
E’ però riduttivo rinchiudere il mobbing solo all’interno di un sistema lavorativo in quanto raggiunge, colpendo il singolo individuo, i diritti umani e civili di tutta la società.
Normalmente il mobbing ha la sua genesi in un conflitto lavorativo e si canalizza in soluzioni istituzionalizzate, apparendo come un conflitto irrisolto e proiettandosi nella sfera relazionale. I primi segnali del mobbing sono piccole azioni che il mobbizzato ha difficoltà a riconoscere: pettegolezzi più o meno fondati, che cercano di mettere in cattiva luce l’individuo, il ritrovarsi “fuori” dal giro del caffé o della pausa pranzo allusioni apparentemente scherzose e senza importanza, piccole conflittualità con i colleghi fino a conflitti più ampi e frequenti con l’intero gruppo di lavoro.
Se consideriamo ognuna di queste azioni slegata dalle altre possiamo affermare che nessuna di queste è causa di mobbing; infatti, ogni azione presa in considerazione provoca una reazione diversa a seconda dell’individuo e della durata: il mobbing si verifica quando una persona viene sottoposta, sul luogo di lavoro, per almeno una volta a settimana e per un minimo di sei mesi ad isolamento sociale, attacchi alla sfera sociale e professionale attraverso una violenza verbale o fisica da parte di più persone.
Il mobbing ha principalmente due caratteristiche: orizzontale (bossing) e verticale (mobbing).
Il bossing si ha quando i mobber sono colleghi di pari livello del mobbizzato mentre per il mobbing vero e proprio i mobber saranno i superiori del mobbizzato che, anche se non lo praticheranno direttamente daranno comunque l’input iniziale per scatenare la persecuzione. Ulteriormente possiamo dividere il mobbing in discendente, cioè quando è operato direttamente dai superiori verso i lavoratori gerarchicamente inferiori, ed ascendente, quando viene praticato da un individuo o gruppo nei confronti di un individuo gerarchicamente superiore.
Comunque, da qualsiasi punto lo si voglia osservare il mobbing rimane un vero e proprio assalto verso una persona ed è mirato all’eliminazione simbolica dell’individuo mediante una serie di azioni mirate alla distruzione dell’immagine e del credito sociale e lavorativo di cui l’individuo gode.
Nonostante le strategie messe in atto dai mobber abbiano un’indole ambigua, tendendo a dissimulare i loro effetti attraverso motivazioni e cause fittizie, false e strumentali, gli effetti che provocano sono visibili a tutti: la vittoria del forte sul debole!
Il mobbing è il trionfo del conforme e del conformistico che festeggiano l’espulsione dalla propria sfera sociale di quelle dissonanze, conflittualità e diversità che li metterebbero in crisi.
Di fatto i mobber sono persone in crisi che difendono loro stesse e la loro fragilità attraverso atti che, il più delle volte, non rispondono a pieno ai loro tatti personologici normali.
Il mobbizzato subisce, invece, una serie di effetti: dai disturbi del sonno (insonnia od ipersonnia), alimentari (bulimia od anoressia), emicranie persistenti più che cefalee, tic nervosi, dermatiti, gastriti più che colecisti spastiche.
Disturbi che si ripercuotono anche a livello sociale ed emotivo e, in particolare, in problematiche relazionali, disturbi dell’umore che possono, in casi limite, anche tradursi in pensieri di fine e rovina ma che, nella maggior parte dei casi, si traducono in rabbia e depressione.
Se consideriamo l’azienda come un’entità slegata al fenomeno, cioè come un qualcosa di non legato fisicamente alla persecuzione effettuata dagli uomini sugli uomini, notiamo gli effetti devastanti che il fenomeno produce sia sul gruppo di lavoro che sul lato economico, in quanto il mobbing genera una disgregazione relazionale e comunicativa tra le persone (i mobber impegnati a produrre strategie disgreganti, il mobbizzato a subirle e gli altri, i neutri, che non entrano nel merito della situazione in quanto temono di essere le prossime vittime) che, con il tempo, frammenta la capacità produttiva degli individui con serie ripercussioni sull’economia aziendale, con conseguente decremento dell’efficienza, della qualità e quantità della produzione di beni o servizi, il tutto in un clima generale di permanente dissenso e tensione che offuscano obiettivi e strategie organizzative.
La genesi della conflittualità
Si parla di relazione quando almeno due soggetti, siano essi cose o persone, vengono coinvolti in un rapporto comunicativo. In un ambiente di lavoro questo rapporto si viene a creare tra colleghi, tra un superiore ed il suo subordinato, tra un lavoratore ed un utente o cliente, tra il lavoratore e gli oggetti del lavoro siano essi anche solo simbolici ma si il rapporto comunicativo nasce innanzitutto tra l’individuo ed il suo datore di lavoro, sia esso un entità fisica (cioè una persona) che un’azienda.
Chi si occupa di comunicazione, e quindi di relazioni comunicative, sa che il primo assioma della pragmatica della comunicazione è che non è possibile non comunicare: anche quando non comunichiamo stiamo comunicando agli altri che non vogliamo comunicare.
Partendo da questo assioma ci rendiamo conto che se è vero che non è possibile comunicare si ha, come conseguenza, che non è possibile non creare rapporti relazionali e/o interelazionali: comunicare è un bisogno psicologico e sociale dell’uomo in quanto attraverso questo meccanismo affermiamo verso gli altri la nostra esistenza e gli altri, di contro, riconoscono il nostro diritto ad esistere confermando il nostro valore sociale e personale.
Quindi per comunicare, per essere accettati socialmente, per affermare il nostro diritto ad esistere e vederlo confermato si deve interagire con gli altri, senza questo comportamento non si possono ricevere quella quantità di stimolazioni e di riconoscimenti che andranno a motivare ed a dare un senso al nostro vivere ed agire nel mondo: non dimentichiamo che l’essere umano è un animale sociale che non può fare a meno della socializzazione.
Il meccanismo della comunicazione è, anche, un passaggio continuo di informazioni, pensieri, messaggi, sentimenti, emozioni che si muovono all’interno di una contestualità ben definita, in cui ogni individuo utilizza una codifica del linguaggio differente dall’altro; per questo motivo la comunicazione non deve mai assumere un valore ambiguo e, fin dove è possibile, deve essere esplicita limitando le valenze implicite, in modo di non correre in problematici fraintendimenti.
Nell’ambiente di lavoro questo meccanismo si esplicita oltre che nei dialoghi nella gestualità, nelle intenzioni cioè in quei messaggi che vengono esplicitati all’interno di una contestualità che si muove con delle regole ed aspettative ben precise. E’ proprio in questo frangente che può nascere una conflittualità.
Il conflitto, la conflittualità, è anche essa una forma di comunicazione. Questa affermazione assume il suo reale valore, in senso positivo, se la si considera sotto l’ottica, prima esposta, del differente modo di comunicare tra individui ed la differente modalità di codificare e decodificare i messaggi.
Non è difficile, quindi, immaginare la comunicazione come uno scontro tra due linguaggi diversi che debbono cercare un loro equilibrio per ben comprendersi: per comunicare correttamente si deve, innanzitutto, generare un linguaggio comune con delle regole, codifiche e decodifiche accettate tra i due soggetti comunicanti.
Questo tipo di meccanismo si viene a generare in funzione di una conflittualità, il non riuscire a comprendersi; la conflittualità diviene, in questo modo, solo un incontro tra due soggetti diversi assumendo un significato positivo, in presenza di un’interazione ambigua o falsamente implicita la conflittualità, e quindi il meccanismo comunicativo, assume una valenza negativa.
Nel campo lavorativo la conflittualità non costituisce, di per sé, una novità ne può essere considerato un evento straordinario: ci possono essere delle divergenze sia di vedute che di azione, delle discussioni animate, delle simpatie ed antipatie fino ad una concorrenzialità per accrescere il proprio livello lavorativo e remunerativo.
Queste tipologie conflittuali non possono essere considerate in negativo in quanto costituiscono uno stress a valenza positiva, una spinta che può portare ad una maturazione inter ed intra personale; sappiamo che in ogni relazione ci troviamo ogni volta di fronte a persone e situazioni diverse, ciò vale anche nel campo lavorativo, ed è proprio da questa diversificazione delle relazioni che si può avere una crescita personale, una corretta conflittualità deve essere considerata non un ostacolo difficilmente superabile ma un qualcosa che può permetterci di scoprire delle nuove fonti e capacità personali che fino a quel momento ignoravamo.
Se, però, le differenze che vengono messe in atto nel conflitto vengono esplicate in modo distruttivo divengono causa di un livello di disagio che possono provocare una modificazione negativa dello stato psicofisico dell’individuo, portando ad insicurezza e calo della propria autostima quali: il troppo o poco lavoro, la cattiva distribuzione del lavoro, il proprio ruolo ed il livello di responsabilità lavorativa, la struttura lavorativa e l’organizzazione di questa, la mancanza di corretti canali di comunicazione, mansioni e ruoli ambigui e non correttamente esplicitati, l’arrivismo sia proprio che altrui, la frustrazione delle proprie ambizioni di carriera, il carrierismo, la natura del rapporto che si è instaurato con colleghi e superiori, una particolare caratteristica di personalità.
Non sempre avere un punto di vista diverso con altre persone deve essere vissuto negativamente; se si ha la voglia e si riesce a trovare dei punti in comune si può sfruttare la situazione per rafforzare le proprie capacità di mediazione, accrescendo la fiducia degli altri nei nostri confronti. Il riuscire a risolvere una certa conflittualità ci permette, inoltre, di accrescere la nostra autostima in quanto ci fa rendere conto di avere una capacità nel superamento degli ostacoli, e perciò delle conflittualità, affinando le abilità nella socializzazione.
Oltre a questi fattori, una scoperta capacità di risoluzione dei conflitti stimola anche la creatività: quando si risolve un conflitto si scopre una nuova risorsa che pensavamo di non possedere.
Questo fatto non può che portarci alla nascita di nuovi stimoli che ci permetteranno di accumulare e liberare quella tensione che, fino a quel momento, era rimasta chiusa in noi, creando nuovi interessi ed indirizzarci verso un migliore utilizzo delle nostre capacità.
Il non riuscire, od il non sapere, utilizzare in una fase di crescita le conflittualità ci provocherà delle sintomatologie, che variano da individuo ad individuo e che vanno dalla difficoltà di concentrazione sia lavorativa che relazionale, un incremento della propria irritabilità, poca o nulla capacità nel rilassarsi, il non riuscire a mantenere la lucidità nei ragionamenti con una conseguente perdita di razionalità.
Le conseguenze fisiologiche, legate a questi sintomi di per sé psicologici, possono essere l’emicrania, l’insonnia, delle difficoltà nell’apparato gastroenterico che possono portare (in casi estremi) all’insorgenza dell’ulcera, una modificazione del controllo pressorio (ipertensione anche di livello parossistico); le conseguenze fisiologiche, a loro volta, provocano problematiche comportamentali come l’abbandono e l’evitamento dei rapporti interpersonali, l’abuso di sostanze alcoliche, l’incremento dell’uso del tabacco ed infine l’uso ed abuso di sostanze psicotrope quali tranquillanti, ansiolitici ed ipnotici (farmaci che ci permettono di dormire e quindi di superare l’insonnia), comunque tutte quelle sostanze che, in un modo o nell’altro, hanno una base di benzodiazepina che ci permetterà di ritrovare una “fittizia” tranquillità momentanea.
Non si può negare che questo tipo di effetti, vissuti individualmente, creano disagi anche a livello di organizzazione lavorativa, generando tensioni a tutto l’ambiente che ne risentirà da un punto di vista produttivo ed incrementando il rischio della sicurezza sul posto di lavoro. Come si può facilmente comprendere il disagio del singolo individuo, se non affrontato, diviene in breve il disagio di tutti.
Una conflittualità esplicata e ben gestita può da una parte essere una risorsa sia individuale che collettiva ma se mal gestita porterà ad una difficoltà di cui ne risentirà tutto il ciclo produttivo ed economico; la cattiva gestione delle conflittualità, spesso, è frutto di una mancata o povera chiarezza sia da parte individuale che da parte dell’intera organizzazione lavorativa che porta alla non visibilità del conflitto, nel volerlo nascondere od evitare e che lo porterà a perdurare nel tempo generando, come detto, conseguenze per tutti.
E’ comunque possibile prevenire le conflittualità sul posto di lavoro, questo grazie ad alcuni indicatori che ci permettono di comprendere anticipatamente con quali e quante probabilità si può sviluppare una conflittualità interpersonale.
Innanzitutto vanno considerate le caratteristiche del gruppo di riferimento, in questo caso del gruppo di lavoro. Sappiamo che in ogni interazione sociale si tende a creare dei gruppi, ciò è vero anche nel campo del lavoro, e vi sono varie modalità di formazione dei gruppi che, per facilità, possiamo definire formali ed informali.
I gruppi formali, in campo lavorativo, si vanno a formare con il fine di svolgere delle mansioni e per facilitare lo svolgimento del lavoro stesso. I gruppi informali si basano principalmente su di una condivisione reale, o soltanto immaginaria, di interessi, abitudini o molto più semplicemente su delle caratteristiche generali che vengono condivise in quel momento.
A noi interessa esaminare maggiormente proprio la modalità d’azione dei gruppi informali in quanto è proprio in essi che vanno a formarsi e strutturarsi tutta una serie di stereotipi che, in seguito, permetteranno la formazione di quei sottogruppi che andranno ad agire come mobber decidendo al loro interno l’inclusione od esclusione delle persone dalla circolarità della comunicazione e, quindi, l’esclusione da tutte quelle informazioni utili, isolando i singoli individui, vessandoli e scaricando su di loro tutte le frustrazioni che il sottogruppo informale è costretto a subire, quali gli insuccessi lavorativi di un singolo appartenente al sottogruppo informale.
Questo fattore porta ad una modificazione delle regole interattive della società stessa, è a questo punto che il sottogruppo informale decide ciò che è appropriato fare da ciò che non lo è, anche scompaginando le normali regole del vivere civile. Il fatto che non vengano osservate le regole comuni ma che, anzi, se ne vadano a creare delle nuove in contrapposizione porta al determinarsi della conflittualità: il sottogruppo informale si va ad autoemarginare e per vendicarsi di questo meccanismo tende ad emarginare persone che vivono, in parte, anche esse ai limiti dell’accettazione dell’ambiente lavorativo, divenendo così, anche a loro insaputa, un meccanismo catatonico utilizzato da altri per espletare l’esclusione di determinati soggetti.
Si tende, quindi, a non espletare più meccanismi di aiuto verso colleghi in difficoltà lavorativa, a non sostituirli nel lavoro in caso di assenza evitando di dargli consigli ed incoraggiamenti nei momenti di difficoltà, arrivando a volte a consigliarli in modo errato.
Altro passo messo in atto dal sottogruppo informale è il non rispettare il diritto della privacy, arrivando a criticare, o rimproverare, aspramente un collega di fronte a terze persone, discutendo con queste anche questioni confidenziali apprese e non permettendo all’individuo oggetto di mobbing alcuna possibilità di difesa. In alcuni casi, quando cioè il mobbing viene manovrato dall’alto, vengono deviate, se non stravolte, le mansioni lavorative assegnando compiti lavorativi screditanti al mobbizzato.
Se è vero che è difficile dare un confine preciso alle conflittualità ciò vale ancor di più se la conflittualità sfocia nel mobbing, non dimenticando che, comunque, le parti in causa (mobber e mobbizzato) hanno ognuno la propria percezione dei fatti, dando su questi interpretazioni diverse. E’ comunque vero che un mobber difficilmente saprà rispondere sul perché di un certo atteggiamento senza tradire un ragionamento tipo “era giusto che lo facessi perché così doveva essere”, cioè il non riuscire a dare una spiegazione convincente sul perché si è agito in un certo modo.
L’osservatore esterno dovrà cercare di dare una valutazione che sia il più possibile realistica, attraverso un’analisi critica della situazione che gli si prospetta, cercando di comprendere il punto di vista di tutte e due le parti: non ci si deve rinchiudere nel giudicare solo sotto una spinta emotiva ma si deve cercare di estraniarsi dalla situazione per meglio osservarla e giudicarla.
Dal conflitto al mobbing
Il mobbing è una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro in cui un singolo individuo viene messo in condizioni di inferiorità, aggredito sia in modo diretto che indiretto da una o più persone (colleghi o superiori) in modo sistematico e per un lungo periodo, scopo ultimo è la sua esclusione dal mondo del lavoro, sia in particolare che in generale.
Questo processo discriminatorio somiglia, per certi versi, alle fasi dello stress come descritte da Hans Selye (1946) nella Sindrome generale di Adattamento in cui si susseguono tre diverse fasi: allarme, resistenza ed esaurimento.
In base a questo possiamo affermare che l’esperienza del singolo individuo è in rapporto con lo sviluppo dell’attività pulsionale, fattore importante non solo per lo sviluppo delle pulsioni ma anche perchè strettamente connesso con l’attività dell’IO: non si accumulano solo gratificazioni ma anche essenziali frustrazioni.
In questo modo l’influenza evolutiva del principio di realtà può stabilire un rapporto di interazione reciproca con le funzioni del principio del piacere.
L’identificazione primaria è un modo primitivo per mettersi in relazione con gli oggetti, diversificandosi dall’identificazione secondaria che assume una funzione critica nel processo evolutivo che non si limita soltanto nel periodo che va dall’infanzia all’adolescenza ma che persiste nel tempo, a livello adulto li dove agisce nel fattore di integrazione della personalità.
Possiamo collegare questa distinzione a tutte quelle differenze legate al narcisismo primario e secondario, tra angoscia primaria e secondaria nonché tra processi integrativi primari e secondari.
A questo punto si sarebbe portati a pensare che in ogni tipo di azione e contatto sociale espletato dall’individuo più gratificazioni si hanno e meno si è coinvolti in attività stressanti, questo assunto non corrisponde alla realtà in quanto anche l’esasperazione delle gratificazioni porta l’individuo ad eventi stressanti, cercando di raggiungere sempre un “gradino superiore”: l’attesa prolungata provoca uno stress come la delusione, quindi un individuo condizionato da una società concorrenziale ma per niente gratificante, per certi compiti, resterà in attesa del premio o rimarrà delusa da premio ricevuto.
Da questo punto all’insorgere dello stress, e/o di un disturbo psicosomatico, il passo è breve. Possiamo prendere ad esempio un impiegato, un piccolo manager od un capitano di una media industria, apparentemente tutte e tre queste figure non hanno fattori in comune:
- l’impiegato svolge sempre il solito compito monotono;
- il piccolo manager è sempre in caccia del grosso affare;
- il capitano di una media industria è sempre sull’orlo del fallimento.
Anche se non hanno, apparentemente, fattori in comune queste tre figure sono unite da un filo sottile: la voglia di volere arrivare ad una realizzazione personale che gli viene indotta dalla società, da quella stessa società che poi, in un modo o nell’altro, tutti e tre affermano di “odiare”.
Quando si è portati a considerare un qualcosa di estraneo a noi come parte malata si parla di identificazione del e nell’oggetto malato: in altre parole un avaro non si considera mai tale ma sarà portato a considerare gli altri o troppo spendaccioni (quando vanno a chiedergli dei soldi) o troppo attaccati al danaro (quando lui chiede dei soldi), cioè non sarà mai l’avaro malato ma gli altri.
Stesso sillogismo dell’avaro possiamo applicarlo sui mobber: perseguitano un individuo perché sono loro stessi, o si sentono loro stessi dei perseguitati e, quindi, scaricano le loro frustrazioni su di una terza persona percepita come oggetto estraneo al gruppo e quindi a se stessi.
Questo meccanismo agisce in modo semplice ed in salvaguardia della persona, o gruppo, nei confronti dell’esterno proiettando a di fuori di se, del proprio vissuto, l’elemento o parte ritenuto malato, alterando la visione del mondo, vedendolo in modo contraffatto e riconoscendo in gruppi, individui, oggetti o compiti simbolici ciò che si ritiene malato in se stessi.
Dicevamo che questo meccanismo salvaguarda in parte la salute della persona o gruppo permettendogli di superare lo stress senza però eliminare il fattore stressante, anzi inducendolo in altri.
Si avranno così, dal parte del sottogruppo informale, tutti quegli atteggiamenti frustranti, diffamanti, vessatori quando si troverà di fronte a compiti simbolici, individui, gruppi di persone o semplici oggetti su cui viene spostata l’identificazione del disagio.
Il nostro cervello, secondo l’ottica di McLean (1984), è formato da tre parti: rettiliano, quello più primitivo ed istintuale, mammiferiano, quello emozionale, e cervello propriamente detto presente nell’uomo e nei delfini con matrice di razionalità.
Questi tre cervelli sono concatenati tra di loro, quindi ogni essere evoluto si porta dietro il patrimonio genetico degli esseri meno evoluti: l’uomo è istintuale, emozionale e razionale.
A noi interessa, in questa fase, il cervello rettiliano il quale programma comportamenti stereotipati secondo le istruzioni derivate dall’apprendimento ancestrale oltre che dalle memorie ancestrali.
Il comportamento dei rettili dimostra la tendenza a seguire dei percorsi tortuosi, che sono però già stati provati dal rettile stesso, od un agire secondo programmi rigidi; questo tipo di abitudinarietà ha un valore di sopravvivenza che porta a chiederci fino a che punto il cervello rettiliano dell’uomo lo condiziona a situazioni precedenti in rituali, convinzioni, azioni e persuasioni.
Siamo di fronte ad una coazione a ripetere che si manifesta nell’uomo e nel gruppo di fronte a pericoli o situazioni che potrebbero costituire un pericolo: cercare di fare dimettere un lavoratore, od una serie di lavoratori, può significare la sopravvivenza di un’azienda e, con questa, di una persona od una serie di persone.
Il condizionamento ad una situazione precedente è un primo passo verso un comportamento ossessivo che porterà ad una generalizzazione del fenomeno: ogni coazione a ripetere è una forma di ritorno alle origini.
Questo comportamento tortuoso trova il suo compimento nel percorso della ricapitolazione, classica nello sviluppo ontogenetico che porta alla conclusione che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, con il ritorno dell’animato all’inanimato: quindi quando il sottogruppo informale mette l’individuo in condizioni di non nuocere lo fa per continuare a sopravvivere lui stesso.
L’imprinting è uno dei comportamenti che presenta maggiori punti di contatto tra comportamento rettiliano e comportamento umano: sappiamo che ci sono determinati periodi critici dello sviluppo cerebrale nei quali si ha una particolare tendenza a stabilire legami affettivi con oggetti dell’ambiente circostante.
Nell’uomo l’imprinting rappresenta l’investimento sul sé e sugli altri, cioè la possibilità di mutare il comportamento verso l’ambiente interno e/o esterno.
Ma fino a che punto la tendenza ad imitare, ereditata dai rettili, è legata, per ciò che riguarda il comportamento umano, all’isteria di massa come la violenza del gruppo e all’adozione, più o meno generalizzata, di mode?
Il cervello rettiliano si comporta come se avesse un legame nevrotico con il Super-IO ancestrale che non ha a disposizione un meccanismo nervoso tale da essere capace di imparare, codificare ed affrontare nuove situazioni.
Lo sviluppo della corteccia, quella dei mammiferi antichi, sembra essere un tentativo di fornire al cervello rettiliano una protezione che possa emanciparlo dal Super-Io ancestrale, fornendo in questo modo un quadro più preciso della situazione per fare si che ci si possa adattare sia all’ambiente interno che a quello esterno.
Il cervello umano, con la sua immaginazione, riesce così a tenere il passo con il ritmo della vita moderna, grazie a vari sistemi di lettura rapida (computer ed altri espedienti) ma, nonostante questo, si presume che i due cervelli animali da cui l’uomo non si può separare si muovono con un loro tempo molto più lento. Si ha come l’impressione che abbiano un loro particolare orologio biologico oltre che un loro modo di sequenze, rituali ed una particolare modalità per lo svolgimento dei compiti, modalità che non può essere accelerata.
La natura, perciò, anche sotto la spinta del progresso si dimostra una conservatrice. Sia il cervello rettiliano che quello libico (mammiferiano) sono sopravvissuti a milioni di anni di evoluzione e non ci si può aspettare un loro capovolgimento dall’oggi al domani: tra l’altro come si farebbe a pensare alla sopravvivenza del genere umano senza emozioni che assicurino l’esistenza di un conflitto e di una discussione e che garantiscano il rimescolamento del patrimonio delle idee?
Perciò, nonostante la velocità del nostro vivere quotidiano, ci si deve abituare all’idea che i nostri cervelli animali si muovano non alla velocità di un razzo ma a quella di un cavallo. Riuscire a rendersi conto di questo può servire a vivere in modo più soddisfacente di quanto non sia possibile oggi.
L’uomo deve riuscire ad adattarsi al ritmo del proprio cervello animale, ciò per evitare la nascita di tutti quegli stressor nocivi a se stessi ed agli altri.
Il mobbing è una sindrome definita secondo campi di funzione disturbanti che si manifesta con una varietà di sintomi che difficilmente coincidono con l’idea corrente del disturbo stesso: possono apparire sintomi fisiologici e psicologici che mascherano le vere e proprie sintomatologie patologiche e, con queste, lo stato psicologico esistente del mobbizzato.
La diagnosi di questo tipo di disturbo è difficoltosa in quanto subentrano una serie di fattori e di manifestazioni collaterali, oltre che le lamentele da parte dell’individuo per il trattamento subito sul luogo del lavoro; di contro potrebbe essere fatta una diagnosi semplicistica quando si è in presenza di sintomi psicofisiologici ben precisi, correlabili anamnesticamente in una relazione spazio-tempo.
Uno psicologo, che lavora in questo campo, non deve trascurare il fatto che sintomatologie fisiologiche si presentano in genere in un quadro patologico con la stessa frequenza delle sintomatologie psicologiche e/o psicomotorie. Non è, quindi, fuori luogo parlare di fattori sociali e psicologici coinvolti in un evento stressante quale il mobbing in quanto è ormai accertato che si possono avere reazioni emotive diverse a stimolazioni diverse; questo fatto comporta che ognuno di noi metterà in atto dei meccanismi di difesa singoli e/o di gruppo e che questi meccanismi, per quanto potranno essere forti e radicati nel nostro Io, subiscono continuamente degli attacchi: una persona “sana” reagirà in modo conforme, in modo cioè che la sua struttura psichica non subisca grossi contraccolpi, per una persona che invece si trova sottoposta a continua pressione, e con questo portata al limite del confine sanità/malattia, la serie di informazioni negative che questi attacchi gli daranno faranno sì che la reazione non sia adeguata.
Quale significato può avere in pratica ciò? Essendo ognuno di noi vulnerabile in determinate condizioni sarà costretto al limite della soglia sanità/malattia ma essere vulnerabili psichicamente non basta, però, a giustificare lo stato patologico ma è bensì la reazione che si ha di fronte agli avvenimenti che si presentano che permette di passare o non passare il confine: una persona che viene continuamente attaccata e stimolata negativamente non ha il tempo di recuperare psicologicamente uno stato di “normalità” e, quindi, diverrà sempre più vulnerabile verso la soglia del disturbo.
Se noi prendiamo come dato di fatto, non inoppugnabile ma discutibile, che è la società e perciò la cultura del gruppo che portano al mentire, e perciò ad accumulare o fare accumulare ad altri fattori stressanti e che la persona che da libero sfogo a tutte le sue emozioni viene presto definita ed emarginata come “fastidio pubblico”, allo stesso livello di chi esterna tutto ciò che pensa, e che tutti e due questi individui vengono definiti devianti, il gioco è fatto.
L’indignazione, l’impazienza, l’entusiasmo ed il disgusto possono anche sembrare autorizzati, in certi momenti, ma anche non giustificati: è perciò più semplice, e meno rischioso, trattenersi o cambiare atteggiamento interno piuttosto che rimangiarsi le parole o discolparsi pubblicamente.
L’autocontrollo serve ad informare sia il comportamento interno sia quello esterno delle situazioni ma non tiene conto che la relazione emotiva è comunicabile solo imperfettamente. L’emozione non viene, in questo modo, localizzata e perciò identificata o descritta soddisfacentemente, sia nell’origine che nell’organizzazione, ma con l’andare del tempo, di fronte ad una serie di attacchi continui, diviene individualizzata.
Si tende così a trascendere, a proiettare messaggi, a passare dall’eccitazione alla depressione in breve tempo, ad arrivare a studiare il meccanismo dei propri comportamenti e la loro negazione sino ad arrivare al disconoscimento di alcune proprie reazioni cercando di entrare il più possibile in un meccanismo di invisibilità.
In questo modo si avrà una visione interna negativa che porta alla percezione di una mancanza lì dove ciò che è stato cancellato diventa presente: il comportamento negato diventa la tempo stesso il segno ed il luogo di esperienze penose che l’IO non tollera.
Il fenomeno della conversione pone dei problemi teorici sul suo significato, sia in termini simbolici che economici: il paradosso è che il corpo rivela ciò che l’IO rimuove!
Nel meccanismo di stress si ha lo spostamento dell’innervazione somatica, la proiezione del corpo, anche se è opportuno distinguere la conversione dalla somatizzazione: nella somatizzazione ci sono dei processi di formazione di sintomi diversi da quelli che nascono nella conversione in cui sono più facilmente isolabili.
Questo fatto, però, è possibile per una persona in uno stato di “normalità” non ad una persona che viene continuamente sottoposta ad attacchi da parte di stressor, il mobbizzato diviene così un misto di conversioni somatizzate o, l’inverso, di somatizzazione convertite: è come se il pensiero ed il corpo fossero due entità separate che mantengono legami nascosti o perduti.
Il mobbizzato a questi livelli ha una visione del mondo che gli permette di non accettare un rapporto con una realtà fastidiosa, cambiandola e trasformandola come meglio gli fa comodo e per la sua salvaguardia.
I colleghi ed il luogo del lavoro stesso non esiste più indipendentemente dal resto ma come insieme, questo fatto gli permette di incorporare un atteggiamento egocentrico che arriva a presentarsi come “fuga dalla realtà”: più la persona è disintegrata più grande sarà la quantità delle variabili che si dovranno prendere in considerazione.
Il mobbizzato perde, congiuntamente all’incertezza esistenziale, la consapevolezza del proprio ruolo nei confronti del proprio disagio: come riesce a trovare una via di fuga, anche solo assistenziale, e le dimissioni od il licenziamento vengono vissute come una liberazione da un’angoscia profonda non riuscendo più a leggerne la sofferenza ma la novità svuotando così di significato il tutto.
Il mobbing non è però solo il sintomo di un singolo individuo ma rappresenta il fenomeno di un gruppo societario in cui la persona mobbizzata ed i mobber sono implicati.
Il sottogruppo informale indica il singolo individuo provocandogli un disagio ed iscrivendolo così come elemento patologico di una determinata situazione, vivendolo come capro espiatorio e scaricando su di lui tutte le tensioni in modo di portarlo all’allontanamento dalla norma. Per questo motivo non è possibile considerare il singolo individuo mobbizzato ma lo si deve inserire nel contesto in cui vive, lavora e si relaziona, includendo tutti i rapporti e relazioni che lo circondano.
Il mobbing viene così inteso come conseguenza di un mancato, od impedito, sviluppo di rapporti tra il singolo individuo e le strutture sociali e lavorative che gli ruotano intorno: si iniziano a tagliare tutte le “vie di rifornimento” per le relazioni interpersonali in modo che l’emarginazione dalla struttura sociale e lavorativa possa essere completata ed in modo che non ci sia una via di ritorno.
Dunque il mobbing deve essere visto come una sindrome che si sviluppa lì dove c’è una mancanza di un compito, o la negazione del compito stesso.
Il momento patogenetico si avrà così non nel disagio psicofisiologico del mobbizzato o nella contingenza di un supposto elemento traumatizzante ma nel modo in cui questo elemento turba il meccanismo dell’incontro con il mondo. Nell’evolversi della sindrome da mobbing l’individuo si trova impossibilitato ad agire liberamente in tutte le situazioni della vita quotidiana, e la somma degli avvenimenti precedenti non può che portarlo e provocargli dei successivi errori, senza che riesca ad orientare nel giusto senso sia la sua azione sociale e lavorativa che quella personale.
E’ opportuno, quindi, studiare il sintomo come un fenomeno e non considerarlo solo come una descrizione dei fatti osservati ma come indagine scientifica della descrizione stessa, questo perché la scienza del fenomeno presuppone una conoscenza degli oggetti che lo costituiscono in modo che il tutto venga messo in discussione per essere successivamente dimostrato: il mobbizzato deve così essere studiato ed analizzato al di fuori di ogni preconcetto dogmatico, riferendosi al confronto psicologico per quanto può informare sulle sue condizioni di vita, non dando per scontato l’assunto che il disagio è un oggetto di esclusiva competenza del tecnico, con il conseguente svuotamento della partecipazione della persona alla gestione del suo disagio.
L’emozione è un sentimento a cui vengono associati evidenti manifestazioni somatiche, anche se questa definizione può essere giustamente etichettata come un’affermazione puramente fenomenologia in quanto corrispondente ad un linguaggio di uso comune, è la definizione accettata dalla maggior parte degli psicologi, psicoterapeuti e psicopatologi, che usando il termine emozione nel senso stretto lo distinguono da quello, certamente più comprensivo, di sentimento.
Con il termine sentimento si viene ad indicare uno stato affettivo minore, l’emozione è, invece, uno stato più profondo, esteso e motivato. Non serve però solo l’eccitazione biologica a distinguere lo stato emotivo dagli altri stati dell’organismo in quanto questo viene eccitato anche mentre si compie un compito od un lavoro, è piuttosto l’intensità del tono affettivo che caratterizza lo stato emotivo.
Non è, quindi, corretto parlare di emozioni ma di stati emotivi, definendoli come condizione dell’organismo nelle esperienze unite da una tonalità affettiva: si avranno così condizioni somatiche simili con emozioni che hanno nomi diversi, in quanto la differenza conscia dello stato emotivo non è immune dall’influenza delle circostanze esterne.
Differenziare le emozioni solo sulla base delle modificazioni fisiologiche è difficoltoso, è più semplice distinguerle attraverso espressioni convenzionali che gli uomini hanno assimilato per comunicare i rapporti emotivi significativamente.
Come si capisce da questo escursus vi sono delle difficoltà di comprensione di termini se si cerca di caratterizzare l’emozione solo nella sfera affettivo-istintiva, in quanto presentano delle caratteristiche comuni: sono delle manifestazioni psicosomatiche complesse e possono essere studiate e descritte attraverso vari punti di vista.
In questo modo l’emozione non viene differenziata di molto dal sentimento ma, il carattere dell’intensità con cui si vive, fa sì che ogni emozione si presenti come un sentimento vissuto, cioè la persona si sente preda e viene sopraffatta da uno stato di coscienza povero di contenuti percettivi ed ideativi e, ad uno stato maggiore confinante con la patologia, non ne avverte più le qualità intrinseche.
I fenomeni somatici più evidenti, anche perché più studiati, interessano l’apparato cardiovascolare e la respirazione, ma ogni emozione, specialmente se vissuta intensamente, si ripercuote attraverso il sistema neurovegetativo in tutto l’organismo.
Le manifestazioni somatiche e mimiche diventano, così, necessarie per la coscientizzazione emotiva che altrimenti, venendo repressa, resterebbe presente solo nell’interno dell’organismo. Questo tipo di repressione porta alla trasformazione di un evento emotivo cosciente a sintomo somatico presente nella coscienza solo come risultato finale di sintomo come corpo estraneo ed in questo modo non viene più vissuto.
L’essere umano, sin dall’infanzia, attraverso il meccanismo di prescrizioni e punizioni apprende, gradualmente, il comportamento conforme al modello sociale, nel caso della comunicazione verbale e di quella non verbale si conserva tuttavia il privilegio di rispondere con delle reazioni emotive “proibite”.
Ecco perciò che si prova gioia alla sfortuna di un rivale apparendo agli altri indifferente od esprimendo apertamente il proprio dispiacere; oppure si hanno parole di coraggio ed eroismo che servono a nascondere al gruppo le proprie paure e alcuni, molto bravi, persuadono persino se stessi di non avere paura; ancora se le relazioni affettive si estendono a persone o cose estranee all’ambiente sociale, culturale e familiare si arriva a nascondere agli altri il proprio amore ed il piacere stesso dell’amore, tenendolo segreto.
Questo tipo di stati emotivi non manifesti ha i suoi vantaggi nel mondo interiore: non proteggono solo la persona dalle conseguenze della disapprovazione ma proteggono anche il gruppo da quei “trascurabili” e “sgradevoli cambiamenti emotivi della persona stessa.
Potremmo avere, da una parte, una difettualità biologica, geneticamente predeterminata che ci porrebbe in uno stato di stress-tassico, dall’altra ci troveremo di fronte ad un insieme di stressor, a cui non ci si può sottrarre, che provengono direttamente dall’ambiente ed a cui non ci si può sottrarre che sono prettamente e solamente di natura psicologica.
Una personalità stress-tassica, sviluppata in condizioni particolari e specifiche di apprendimento sociale, conduce a manifestazioni di un tipo particolare di organizzazione della personalità e del comportamento che possiamo definire stress-tipica.
In circostanze normali i soggetti stress-tipici presentano comportamenti ben compensati, senza mai scivolare in manifestazioni eclatanti che, tuttavia, si presentano quando vengono sottoposti ad eventi stressanti, rispetto ai quali si ritrova svantaggiato anche in relazione alla sua debolezza costituzionale.
In sostanza l’azione dello stress ambientale psicologico costituisce l’elemento scatenante di un’espressione emotiva solo di elementi stress-tipici che presentano tratti di stress-tassia, quindi non è giustificabile in una condizione di stress prolungato e pressante quale il mobbing generalizzare od incolpare un particolare tratto personologico per affermare che “l’individuo era già geneticamente predisposto”.
Gli effetti esercitati dalle endorfine sul Sistema Nervoso Centrale sono importanti per il ruolo che vengono ad avere nella sfera motivazionale ed affettiva delle risposte comportamentali allo stress. In specifico le endorfine giocano un ruolo nelle reazioni affettive agli stressor come limitazioni, rumori, calore, male fisico, separazioni, isolamenti, aggressività e novità improvvise; un’esauriente stima di questi fattori mette in evidenza la natura adattiva delle funzioni endorfiniche nelle risposte allo stress.
Infatti, un malfunzionamento a livello endogeno può presentare delle reazioni da parte dell’organismo paragonabili ad un difetto nel sistema endorfinico, come destrutturazione al processo adattivo relativo allo stress. Una simile destrutturazione può, alla fine, interferire con i tentativi fatti dall’organismo in lotta contro gli effetti dei cambiamenti prodotti dalle varie circostanze.
Il soggetto stress-tassico presenterà, nel tempo e nel proseguo dell’evento stressante prolungato nel tempo (come avviene nelle situazioni di mobbing), una difettualità inerente al sistema endorfinico che porterà, come risultato, ad una labilità nel sistema stesso con delle anormalità secretorie in risposta all’evento stressante stesso.
Si può così affermare che una labilità endorfinica andrà a caratterizzare un’instabile disposizione affettiva ed un’alta sensibilità ad un accerchiamento mentale e psicologico agli eventi stressanti: lo stress psicologico attiverebbe dei comportamenti abnormi la cui controparte biologica sarebbe legata ad alterazioni della modulazione endorfinica, anche se la presenza di un elevato livello endorfinico non è di per sé sufficiente a produrre anomalie comportamentali.
La sindrome da mobbing può essere divisa in quattro fasi principali. Durante la prima fase abbiamo l’insorgenza di conflittualità che può presentarsi sia come attacchi diretti, vari e spregevoli “scherzi” di cattivo gusto; in questa fase, che può durare fino a sei mesi, non si può ancora parlare di mobbing o bossing vero e proprio ma è più che altro un momento di avvisaglie di quello che potrà presentarsi in seguito.
In un secondo momento, passate le avvisaglie della prima fase e nel momento che perdurano i comportamenti messi in atto contro l’individuo, si nota un incremento, che può anche cronicizzarsi, dell’ansia e, in una terza fase si arriva alla negazione dei diritti del mobbizzato, negazione dei diritti che vengono tollerati se non presi direttamente dai vertici aziendali. In una quarta ed ultima fase si avrà la dequalificazione della persona con conseguente svalutazione delle sue mansioni lavorative, a cui seguiranno trasferimenti continui del lavoro, fino all’esclusione dal mondo del lavoro stesso. In questa fase si nota nell’individuo un incremento di ricorso a cure mediche, lunghi periodi di assenza per malattia anche con ricoveri.
Come si comprende questo processo può avere un esito micidiale e distruttivo psicologicamente e socialmente sulla persona, per questi motivi è opportuna una prevenzione al fine di riconoscere il processo di mobbing sin dal suo insorgere. Il processo preventivo è utile sia per il lavoratore ma anche e soprattutto per l’azienda che subisce un danno più o meno pari da quello subito dal mobbizzato stesso.
Il processo del mobbing, infatti, distoglie dai compiti lavorativi, e perciò produttivi, una serie di persone: i mobber saranno più impegnate a cercare e studiare strategie di disturbo, distogliendosi così dai loro compiti e mansioni lavorative, il mobbizzato sarà messo in condizioni di non svolgere bene a sua volti i compiti e mansioni a cui è preposto.
Questo fatto comporta un decremento della produttività non solo da parte dei singoli individui ma di tutta l’azienda, in quanto il ritardo di una o più persone si ripercuoterà su tutti gli altri creando un vero e proprio danno economico.
Ultimamente l’INAIL ha fornito dei chiarimenti sulle modalità di trattamento delle denunce relative ai disturbi psichici che vengono determinati dalle condizioni organizzative ed ambientali riguardanti il posto di lavoro ed il lavoro stesso.
L’interpretazione dell’INAIL è attinente all’evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla sempre più crescente attenzione che l’Istituto pone verso la sicurezza e salute sui luoghi di lavoro; la nozione della causa lavorativa permette una diversa comprensione sia della nocività di alcuni posti di lavoro in cui si va a sviluppare un ciclo produttivo aziendale che riconduce all’organizzazione aziendale stessa delle attività lavorative.
In questo quadro i disturbi psichici, e tra questi il mobbing, vengono considerati causati dal lavoro solo se causati, od in qualche modo legati, da specifiche condizioni dell’organizzazione del lavoro: in pratica un ambiente di lavoro che provoca o favorisce l’insorgere di tensioni può essere chiamato in causa per l’insorgere di una problematica psicologica.
Tra le situazioni di “costrittività organizzativa” vi sono: il porre ai margini dell’attività lavorativa un individuo, lo svuotamento delle mansioni, una forzata inattività, una non assegnazione di corretti strumenti di lavoro, ripetuti ed ingiustificati trasferimenti, un’attribuzione prolungata di compiti dequalificanti (inerentemente al profilo professionale ed al contratto di lavoro firmato) o di compiti eccessivi ed esorbitanti le mansioni, una reiterata esclusione del lavoratore rispetto alle iniziative di formazione, riqualificazione e/o aggiornamento, l’eccessivo controllo sullo svolgimento del lavoro.
Definiamo il Mobbing
Siamo ormai arrivati ad un punto critico: definire il fenomeno “mobbing”.
Fino ad ora ne abbiamo parlato, certo, ma il tutto risulta ancora, per certi versi, confuso, incompleto, come se si fosse aperta una porta e non si riesce ancora a capire bene cosa ci sia dietro.
L’ex articolo 2087 del Codice Civile affermava che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Quindi le ingiuste vessazioni e/o discriminazioni effettuate sul lavoratore, e da questi subite, individuano una responsabilità contrattuale del datore di lavoro.
Il lavoratore danneggiato deve dimostrare l’esistenza di un danno, una colpa in colui che avrebbe commesso il fatto ed un nesso di causalità tra il comportamento discriminatorio e/o vessatorio ed il danno subito.
La rilevanza giuridica della prova viene determinata dall’abnormità del comportamento messo in atto rispetto alle normali condizioni che vanno a caratterizzare la realtà psicologica e sociale in cui il lavoratore opera oltre che vi sia una capacità, del comportamento messo in atto, di modificare le normali condizioni di vita del mobbizzato, precedenti al comportamento messo in atto.
Quindi il dolo è un comportamento non permesso che una persona od un gruppo di persone compie intenzionalmente e volontariamente, la colpa deve, invece, essere intesa come un comportamento caratterizzato da una negligenza o da un’imprudenza o, più semplicemente da un’inosservanza delle leggi, regolamenti, ordini o discipline. La colpa, come il dolo, provoca un’azione non consentita ma, a differenza del dolo, può anche non essere volontaria, comunque tutte e due causano un danno ad altre persone e tutte e due sono perseguibili per legge.
Nel mobbing il danno causato può essere sia fisiologico ma ancor più psicologico. Infatti, sono soprattutto i danni psicologici che provocano, nel mobbizzato, cause anche fisiologiche. Il danno psicologico non viene, però, contemplato nella giurisdizione italiana se non all’interno del danno biologico, e spesso viene definito e liquidato come danno morale.
Di fatto il danno psicologico può essere visto come una turbativa, ingiustificata, dell’equilibrio psicologico della persona, anche se questa aveva già in atto una psicopatologia (nel qual caso si analizza e quantifica l’aggravamento psicopatologico). Quindi quando si causa un’alterazione delle funzioni psicologiche di una persona, sia essa temporanea che permanente, si impedisce di attendere, in modo totale o parziale, alle sue normali ed ordinarie funzioni. Questo fatto, come ben si comprende, rientra nella sindrome da mobbing.
La valutazione del danno psicologico deve andare a stabilire come ed in che modo il disturbo subito lede all’integrità psicofisica, alla vita di relazione ed alla capacità lavorativa della persona.
Nella pratica medico legale viene altresì definito il nesso di causalità, sia in modo cronologico, nel senso che la causa deve sempre precedere il danno subito, sia qualitativamente, cioè il comportamento non conforme e lesivo deve essere adeguato al fine di potere produrre il danno in questione, ed infine quantitativamente, cioè il comportamento che andrà a produrre una modifica alle funzioni psicologiche deve avere caratteristiche di durata e ripetitività che siano adeguate a produrre il danno, inerentemente a questo vi è anche un nesso di causa che tende a dimostrare come il modo in cui è avvenuto il comportamento lesivo sia adeguato produrre quel danno e proprio quel danno.
Il mobbing, in parte, già esiste nella giurisdizione italiana dove, volendo vi sono anche i modi per combatterlo e per agire contro chi lo pratica. Volendo, perché il più delle volte i tribunali, o meglio i Giudici, cercano di sminuirne l’impatto ed il fatto.
Una delle eccezioni è la sentenza n. 5050/99 emessa dal Tribunale di Torino il 6 ottobre 1999 contro la Ergom Materie Plastiche s.p.a ed a favore della signora Giacomina Erriquez, ex dipendente dell’azienda.
Cinzia Frascheri (2003) riporta il primo punto delle motivazioni della sentenza: ”Prima di addentrarci nell’esame delle questioni specifiche di causa, occorre dare conto – ai sensi del comma II dell’articolo 15 del codice di procedura civile e, quindi, nel quadro delle circostanze appartenenti al “fatto notorio”, acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio – di alcuni profili direttamente evocati dalla vicenda prospettata in ricorso.
Da alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e, più in generale, coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici e i suoi riflessi sulla vita del lavoratore ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, suscettibili di incidere pesantemente sulla salute individuale.
Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing.” (Frascheri, 2003).
Quindi già dal 1999 il mobbing era conosciuto e veniva riconosciuto da un tribunale. Nella Risoluzione del 20 settembre 2001 il Parlamento Europeo afferma che considerando, secondo un sondaggio svolto tra 21.500 lavoratori negli ultimi 12 mesi dalla Fondazione Dublino, una Fondazione Europea che si occupa del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini europei, l’otto percento dei lavoratori della Unione Europea, a quel tempo 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, sottolineando che il fatto era notevolmente sottostimato visto che l’incidenza dei fenomeni di violenza e molestie sul lavoro, tra cui la Fondazione di Dublino include anche il mobbing, presenta sensibili variazioni tra gli Stati membri dell’Unione Europea.
Secondo la Risoluzione del Parlamento Europeo questa sottostima del fenomeno è dovuto al fatto che in alcuni Stati vengono dichiarati e denunciati solo pochi casi mentre il altri la sensibilità verso il fenomeno mobbing è maggiore, questo è dovuto anche alle differenze esistenti tra i vari sistemi giuridici e culturali oltre al fatto che la precarietà dell’impiego costituisce da una parte una minore denuncia degli abusi sul posto di lavoro e dall’altra una delle cause principali dell’incremento della frequenza dei fenomeni di mobbing.
Nella Risoluzione Europea del 20 settembre 2001 si afferma che, secondo la Fondazione di Dublino, le persone esposte al mobbing subiscono uno stress notevolmente più elevato rispetto agli altri lavoratori e che le molestie costituiscono dei rischi potenziali per la salute che, spesso, sfociano in patologie associate allo stress stesso e che i dati provenienti dagli Stati membri dell’Unione Europea, rilevano che i casi di mobbing sono di gran lunga più frequenti nelle professioni caratterizzate da un elevato livello di tensione, professioni esercitate più comunemente dalle donne che dagli uomini e che hanno conosciuto una grande espansione nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso.
Secondo il Parlamento Europeo gli studi e l’esperienza empirica convergono nel rilevare un chiaro nesso tra il mobbing nella vita professionale e lo stress da lavoro od il lavoro ad elevato grado di tensione, l’aumento della competitività, la minore certezza di un lavoro o del mantenimento di quello che si pratica nonché l’incertezza dei compiti professionali, cioè una non chiara divisione delle mansioni lavorative. Infine, nella Risoluzione Europea del 20 settembre 2001 il Parlamento Europeo afferma che tra le cause del mobbing devono essere annoverate anche le carenze a livello di organizzazione del lavoro, della circolarità dell’informazione all’interno del posto di lavoro, sia da parte dei vertici aziendali che anche delle organizzazioni sindacali, e che quindi i problemi organizzativi irrisolti e che durano sin da troppo tempo si traducono in pressioni sui gruppi di lavoro e che possono condurre all’adozione della logica di un “capro espiatorio” e da qui al mobbing. Questo comporta, per il Parlamento Europeo, delle conseguenze sia individuali che collettive che per le aziende sia da un punto di vista sociale, psicologico che economico.
Il Parlamento Europeo ritiene che il mobbing, fenomeno di cui al momento non si conosce la reale entità, costituisca un grave problema nel contesto della vita professionale e che sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e rafforzare le misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per combattere il fenomeno. Richiama l’attenzione sul fatto che il continuo aumento dei contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia. Richiama l’attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto essi impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e conducono generalmente a un congedo per malattia o alle dimissioni.
Nella Risoluzione Europea in questione si richiama l’attenzione sul fatto che le donne sono più frequentemente vittime che non gli uomini dei fenomeni di mobbing, che si tratti di molestie verticali: discendenti (dal superiore al subordinato) o ascendenti (dal subordinato al superiore), di molestie orizzontali (tra colleghi di pari livello) o di molestie miste mettendo sull’avviso che false accuse di mobbing possono trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing. Quindi si pone l’accento sul fatto che le misure contro il mobbing sul luogo di lavoro vanno considerate una componente importante degli sforzi finalizzati all’aumento della qualità del lavoro e al miglioramento delle relazioni sociali nella vita lavorativa, in quanto possono contribuire a combattere l’esclusione sociale.
Il Parlamento Europeo, sulla base di questa risoluzione esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del “mobbing”, sottolineando espressamente la responsabilità degli Stati membri e dell’intera società per il mobbing e la violenza sul posto di lavoro, ravvisando in tale responsabilità il punto centrale di una strategia di lotta a tale fenomeno. Inoltre si raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l’attuazione di politiche di prevenzione efficaci, l’introduzione di un sistema di scambio di esperienze e l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico; ricorda a tale proposito la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi, sottolineando l’importanza di ampliare e chiarire la responsabilità del datore di lavoro per quanto concerne la messa in atto di misure sistematiche atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente.
Come si può comprendere non è ancora possibile, anche se passi avanti se ne sono fatti, arrivare a definire con una modalità e linguaggio riconosciuti e condivisi una definizione di “mobbing”. I termini italiani che si possono usare sono molti (persecuzione sul luogo di lavoro, maltrattamento, molestia od intimidazione, violenza pura e propria, un modo coercitivo per costringere il lavoratore a dimettersi e non doverlo licenziare con ciò che conseguirebbe, una progressiva e definitiva esclusione sia sociale che lavorativa, un’assenza di una corretta organizzazione sia di lavoro che sociale, creare ed imporre un sovraccarico lavorativo in modo di ammansire il lavoratore, un fenomeno che rientra nella volontà di persone malate, una chiara strategia aziendale per ridurre il personale o fare in modo che vi siano dei lavoratori che siano messi in condizioni di non “nuocere” alle finalità dell’azienda, una semplice forma di difesa individuale messa in atto da un singolo individuo o da un gruppo di individui verso un’altra persona e si potrebbe andare ancora avanti), si i termini italiani possono essere molti ma il mobbing e tutti questi messi insieme!
Il termine “mobbing” viene così ad assumere più un significato simbolico che avere una definizione rigida e dogmatica (Frascheri, 2003), un qualcosa che rappresenta un insieme di situazioni che rientrano nel disagio e nello stress lavorativo, un contenitore in cui le forme e le dimensioni variano a seconda delle situazioni.
A questo punto non ci interessa più il suo significato originale come vocabolo anglosassone o di sapere da dove deriva, quanto comprendere cosa sia e su questa comprensione cercare di intervenire, lì dove è possibile preventivamente.
Il mobbizzato è una persona vittima di un attacco portato da un gruppo di persone, i mobber, che intendo in modo non pacifico interrompere un suo contatto con un contesto sociale o lavorativo ed, in questo modo, isolarlo ed emarginarlo. Analizzando bene il fatto non è tanto il mobbizzato a costituire un pericolo quanto il fatto che lo si prende di mira per dare un avvertimento al resto dei lavoratori che viene vissuta dai mobber come un pericolo, sia nei ruoli che nelle funzioni: si colpisce uno, si diceva una volta, per educarne cento.
Si deve inoltre comprendere che non sempre si ritrova nei mobber dell’aggressività contro il mobbizzato ma si mettono in atto altre tipologie strategiche, ad esempio l’indifferenza da parte di chi fino a poco prima ti frequentava fa ben più male e fa più “pensare” il mobbizzato dell’essere chiaramente aggredito, il non vedersi più affidare dei compiti precisi o vedersi affidare solo compiti degradanti il ruolo che si ricopre, l’essere isolati sul lavoro anche come luogo fisico, senza cioè riuscire ad avere dei corretti contatti con gli altri colleghi o con la realtà aziendale. Tutte queste sono, senza dubbio, alcune delle più sottili strategie che minano ancor di più la salute psicologica della persona.
Se proprio vogliamo, ma per cultura personale e solo per quella, cercare di comprendere come nasce questo termine possiamo dare uno sguardo alle varie definizioni che ne sono state date, iniziando da Leymann (1990).
Secondo Leymann il mobbing è una comunicazione ostile e non etica diretta, sistematicamente da parte di una o più persone, contro un singolo individuo che viene messo, a causa di questo tipo di comunicazione, in una posizione dove viene a mancargli sia qualsiasi appoggio che di difesa, il mobbing avviene con una frequenza alta e per un lungo periodo di tempo, almeno fino a quando il singolo individuo non decide di cedere dimettendosi o cadendo in uno stato di profonda prostrazione.
Ege (1996) invece definisce il mobbing come una “guerra sul lavoro” dove, attraverso una violenza sia psicologica che fisica che morale, le vittime sono costrette le volontà dei loro aggressori. La violenza si esprime, per Ege (1997a), attraverso degli attacchi al singolo individuo frequenti e duraturi nel tempo con il preciso intento di danneggiare sia la salute, fisica e psichica, dell’individuo, di tagliargli tutti i canali di comunicazione impedendogli anche di potere usufruire del corretto flusso di informazioni, danneggiare la reputazione e la professionalità della vittima, portando il singolo individuo a conseguenze psicologiche e fisiologiche gravi.
Nel 1993 la normativa svedese definiva per persecuzioni, sul lavoro “ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare l’allontanamento di questi lavoratori dalla collettività che opera nei luogi di lavoro”. (Frascheri, 2003)
In Francia nel 2000 il fenomeno mobbing veniva definito “come una serie di azioni ripetute di violenza morale che hanno per oggetto ed effetto una degradazione delle condizioni di lavoro suscettibile di recare offesa ai diritti ed alla dignità del salariato, di alterare la sua salute psicologica o mentale e compromettere il suo avvenire professionale”. (Frascheri, 2003)
In Italia, nel 2001, la Regione Lazio, attraverso una legge regionale poi respinta dal TAR nel 2004, definiva per mobbing ”atti e comportamenti discriminatori o vessatori protatti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”. (Frascheri, 2003)
Queste definizioni ci fanno comprendere che il mobbing non ha una sua oggettività in quanto lo si deve relazionare alle situazioni lavorative ed ambientali in cui viene esplicato, comunque ha una sua precisa configurazione: il disagio che si subisce sul luogo di lavoro non rientra nelle conflittualità ordinarie lavorative, che pur esistono ma non danneggiano in modo permanente l’individuo.
Si accennava in precedenza alla Sindrome Generale di Adattamento di Selye (1946) in cui è presente un allarma, un adattamento ed un esaurimento e che ben descrive la risposta fisiologica allo stress, nel mobbing distinguiamo una fase di allarme, una fase di percezione del disturbo ed una fase di azione.
Nella fase di allarme l’individuo percepisce l’attacco come un qualcosa che non ha senso ne ragione di essere, la durata di questa fase non è dovuta ad una più o meno alta soglia di percezione del disturbo quanto al fatto del riuscire a comprendere, da un certo punto in poi, il perché si vengono a creare tutta una serie di situazioni con una precisa finalità: denigrare, distruggere, perseguitare ed emarginare la persona.
Purtroppo spesso quando ci si accorge di essere in questa fase l’individuo è già in un meccanismo di mobbing da cui è difficile svincolarsi.
La fase di percezione del disturbo, come ben si comprende, è soggettiva e non oggettiva e può perdurare nel tempo, di certo si è a conoscenza che proprio in questa fase si iniziano a sentire i primi disturbi di una certa gravità come, insonnia, ansia generalizzata specialmente mentre ci si avvia od avvicina al luogo di lavoro, disturbi gastroenterici (coliti spastiche, gastriti), tachicardia parossistica, sbalzi di pressione ecc..
La terza fase, quella di azione del mobbing, è quella più subdola ed avviene di norma quando l’individuo, fortemente prostrato, non riesce più a trovare la forza per reagire agli attacchi e quindi si arrende o dimettendosi dal lavoro o continuando ad accettare passivamente le azioni che si rivolgono contro di lui.
L’operatore che si occupa di mobbing deve, però, imparare a distinguere le varie situazioni che gli si presentano in quanto, oggettivamente parlando, non tutte le soggettività della persona che è in conflittualità con colleghi o superiori sul luogo di lavoro è realmente colpita dalla sindrome di mobbing. Ci si deve rendere anche conto che, dopo il film della Comencini (Mi piace lavorare) ed il fatto che se ne inizi a parlare, anche diffusamente, da parte dei mass-media il mobbing sta diventando una moda in cui tutti ci si vogliono più o meno sentire coinvolti. Ecco, quindi, che il primo segnale di conflittualità che può sembrare immotivata, o lo è realmente immotivata, porta l’individuo a tornare indietro con la mente a tutte le “vessazioni che ha dovuto subire” ed inizia a dargli una valenza di persecuzione, anche se queste sono lontane tra di loro nel tempo.
Ricordiamoci che, anche attraverso le definizioni date in precedenza, il mobbing deve avere una sua continuità logica e frequente nel tempo: una “vessazione” subita due mesi prima può anche non avere alcun collegamento con quella subita oggi, lo ha solo se nei due mesi che intercorrono vi sono stati altri segnali concreti.
Questo fatto apre un argomento ben più duro da accettare da parte dei lavoratori: il cambiamento del mondo del lavoro e, di conseguenza, una diversa organizzazione del lavoro.
E’ scontato che qualsiasi cambiamento voglia le sue “vittime”; ora si deve comprendere se le “vittime” vengono fatte in modo discriminatorio o meno, cioè se è realmente necessario sacrificare una persona, se darle un nuovo incarico non sia degradante per il suo ruolo e, se questo avviene, se gli viene dato un giusto ed equo risarcimento, se è proprio quella la persona da sacrificare o non ce ne sono altre a cui costerebbe meno sacrifici (nel senso che è preferibile sacrificare un individuo arrivato vicino all’età pensionabile proponendogli, ad esempio, uno scivolo di anzianità piuttosto che un lavoratore cui creerebbe maggiori danni reinserirsi nel mondo del lavoro).
E’ anche innegabile che con il lavoro interinale gli individui sono più soggetti a subire il mobbing, anche se questo avviene in una fase massima di tre mesi (il tempo cioè che serve a terminare il contratto di lavoro), anche perché sono più ricattabili sul piano lavorativo.
Infatti, sarebbe il caso di riconsiderare la sindrome da mobbing anche alla luce del cambiamento in atto nel mondo del lavoro.
Sul mobbing sono state svolte numerose indagini e ricerche ma nessuna di queste è mai stata eseguita in modo sistematico, seguendo cioè dei criteri comuni, quindi riferirsi a questi dati significa ancor di più andare ad infilarsi in una giungla di numeri che mal chiariscono il fenomeno. Sono dati senz’altro utili per avere un quadro di riferimento dello sviluppo del mobbing ma non aiutano a comprenderne il perché. Infatti, la sindrome da mobbing colpisce indifferentemente tutti i settori e tutte le categorie dei lavoratori, dai vertici alle più basse di livello, ed il perché ed il per come questo avvenga non è ancora ben comprensibile.
Bibliografia ragionata
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