Cos’è l’effetto Lucifero?
Lo “Stanford Prison Experiment” viene preso in considerazione portato ancora oggi a dimostrazione del cosiddetto “Effetto Lucifero”, ossia la possibilità che alcune particolari situazioni siano in grado di trasformare persone “normalmente buone” in criminali capaci di macchiarsi delle peggiori efferatezze, come accaduto per esempio nelle prigioni di Abu Graib durante la guerra in Iraq.
Zimbardo, nel suo libro dal titolo “The Lucifer Effect: How Good People Turn Evil”, sottolinea che il comportamento violento e aggressivo non è in relazione con una disposizione individuale alla violenza, ma è il prodotto di una circostanza e risiede quindi più propriamente nei sistemi che producono queste circostanze.
Tali studiosi hanno infatti evidenziato quanto sia maggiormente appropriato per lo studio del comportamento aggressivo umano un approccio che sottolinei la grande influenza delle caratteristiche specifiche della situazione in cui avviene un tale comportamento: l’approccio situazionista, infatti, evidenziando particolarmente l’influsso sul comportamento umano di specifici “deindividuating inputs”, ha dimostrato che determinate circostanze sono in grado di spingere qualsiasi individuo a comportarsi in maniera ben diversa da come egli si sarebbe comportato usualmente.
Lo “Stanford Prison Experiment”
Nell’esperimento di psicologia sociale “Stanford Prison Experiment”, condotto da Zimbardo presso la Stanford University nel 1971, studenti di college sani, intelligenti, psicologicamente equilibrati, divennero spietati aguzzini ai danni di altri studenti, in soli cinque giorni. L’unica cosa che servì a determinare questa imprevedibile trasformazione fu la creazione di un contesto favorente: una prigione simulata. Fu osservato un progressivo sviluppo dell’intensità delle violenze messe in atto dalle guardie, le quali tendevano a percepire i carcerati non come degli esseri umani.
Nella prigione si stava sviluppando una progressiva deumanizzazione delle vittime del comportamento violento delle guardie, cioè una graduale perdita del rispetto dei più fondamentali diritti della specie umana, fino al punto di considerare i prigionieri come degli esseri indegni di rispetto e di dignità. Ciò rispecchiava essenzialmente ciò che accadeva nella maggior parte delle prigioni americane: i carcerati venivano costantemente sottoposti a delle dure violenze. L’esperimento avrebbe dovuto avere una durata di due settimane, ma Zimbardo fu costretto ad interromperlo dopo cinque giorni, a causa della crescente gravità delle violenze manifestate. Lo scopo scientifico dello studio era stato raggiunto anche al di là delle previsioni.
Secondo Zimbardo, il fenomeno della deumanizzazione costituisce un diverso aspetto del fenomeno della deindividuazione: per deindividuazione si intende ( l’attenuazione della propria identità personale, caratterizzata da sensazione di anonimato, responsabilità diffusa, sottovalutazione e trasgressione delle norme istituzionali). Attraverso il venir meno della considerazione dell’identità personale, della dignità e dei diritti fondamentali di alcuni soggetti, l’uomo è in grado di trattare tali soggetti in una maniera che sarebbe per lui difficile se egli non mettesse in atto il processo della deumanizzazione. Esistono dei comportamenti che non possono venir messi in atto facilmente dal soggetto, poiché vengono costantemente inibiti dalle proprie norme morali e dalla paura di venir giudicati in maniera negativa dalle altre persone.
Secondo Zimbardo, ci sono situazioni particolari in cui i soggetti esercitano la deumanizzazione. Egli pensa, in accordo con quanto sostiene Diener, che il processo di deumanizzazione sia favorito nel caso in cui il soggetto debba relazionarsi con un grandissimo numero di persone; in questo caso, al fine di svolgere al meglio il proprio compito, il soggetto tende a percepire la grande massa di persone come un’entità unica, all’interno della quale si trovano degli esseri anonimi e indistinti, non percepiti totalmente come umani.
Un particolare tipo di deumanizzazione, secondo Zimbardo, avviene anche quando il soggetto deve svolgere degli atti che normalmente sono contrari ai tabù sociali, come ad esempio la violazione dell’integrità del corpo umano. Egli presenta l’esempio del chirurgo, il quale deve essere ben preparato a percepire l’essere umano che deve operare, non come un uomo simile a lui, dotato di emozioni, sentimenti e paure, bensì come un semplice insieme di organi e di fasci muscolari.
L’ultimo caso presentato da Zimbardo, riguarda la deumanizzazione effettuata al fine di ottenere una gratificazione strettamente personale, senza alcun coinvolgimento emotivo e senza sottostare alle inibizioni indotte dal pudore.
La deindividuazione perciò, secondo questa particolare ottica, non è intesa come stato psichico interno, favorito da determinate variabili antecedenti, bensì viene interpretata come un modo specifico di percepire gli altri soggetti, al fine di mettere in atto nei loro confronti dei comportamenti generalmente inibiti.
Attraverso l’analisi di questo particolare aspetto della deindividuazione, secondo Zimbardo si riesce a capire ulteriormente il modo in cui delle “persone comuni” riescono a mettere in atto delle condotte criminali ed orrende, come ad esempio la tortura o lo stupro, senza alcun interesse per il dolore e l’umiliazione inflitta nei confronti delle loro vittime.
Secondo lo studioso di Stanford, non è possibile capire perfettamente come tali tragici avvenimenti possano avvenire, senza un’analisi attenta ai fattori situazionali che caratterizzano l’evento, rifiutando perciò nettamente un’interpretazione che considera il “gene violento” o la malattia mentale la causa delle condotte violente.
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