di Alfredo Lacerenza
a Raffaele Mellucci
e Lidia Parati
Finché il nostro sistema sociale non si rivelerà interessato al recupero di chi è stato escluso, così come all’abolizione di ogni meccanismo di sopraffazione, sfruttamento ed emarginazione, la riabilitazioneGLO084 del malato mentale, cosi come qualsiasi altra azione tecnica in ogni altro settore, si limiterà ad una mera azione umanitaria, svolta all’interno di un’istituzione apparentemente non violenta.
Ogni soluzione tecnico-specialistica, quindi, che non tenga conto di ciò che sottende all’istituzione, alla sua funzione nel sociale, si limita ad agire come un semplice palliativoGLO069 che serve, tuttalpiù, a rendere meno pesante la pena (Basaglia, Ongaro Basaglia, 1971BIBLIO007).
Per escluso non si deve intendere solo chi ha o ha avuto un lungo passato istituzionale, cioè è stato “recluso” in un ambiente chiuso e repressivoGLO082, ma anche chi, per diverse motivazioni, viene quotidianamente istituzionalizzato dall’ambulatorio e/o dalla psicoterapia.
Non è fuori luogo parlare di questo tipo di istituzionalizzazioneGLO052 in un periodo in cui si assiste ad una psicologizzazione del vivere: il terapeuta non è più colui che salvaguarda e difende dalla malattia ma è diventato colui che trova e classifica la malattia, scompaginando i sintomiGLO091 ed autoconvincendosi, e convincendo, di averla debellata, il malato, il disagiato, diventa, così, niente altro che un veicolo della malattia stessa.
Il malato è il campo di una sfida. Il terreno per la sperimentazione. Non esiste più lo psicotico ma la psicosiGLO079, Non esiste più l’alcolizzato ma il delirium tremens o la cirrosi epatica. Non esiste più il tossicodipendente ma l’eroina, o l’epatite C o lo AIDS.
Il malato, imbottito di psicofarmaci, punzecchiato da endovenose, sconvolto dalle parole, imbambolato dalla paura, sottomesso al suo “padrone”, esiste in quanto ha una malattia: è il suo unico patrimonio, la fonte dei suoi (rari) diritti, la ragione della sua stessa sopravvivenza, l’esegesi del suo opaco destino.
Il terapeuta può, così, sovrastare e dominare il disagio. Il disagiato lo subisce e gli si arrende.
Il terapeuta è lo “stregone”. Il malato il “paria”. Il terapeuta possiede tutto. Il malato niente! Il terapeuta ha la scienza. Il malato neanche la coscienza!
Su queste concezioni si regge un sistema ancora legato a molti valori, di cui uno solo escluso: l’integrità e la dignità della persona!
La logica assistenziale italiana è un fatto di classe: da una parte i disadattati, gli emarginati, gli alcolizzati, gli psicoticiGLO080, i tossicodipendenti, i malati di AIDS, ecc., considerati tutti esseri inferiori sui quali tutto è possibile e lecito, dall’altra parte i detentori di un potere chiamato scienza!
Se ci si rende conto che l’ingiustizia perpetrata su di una persona di fatto colpisce tutti noi, la massa, ci si rende conto che la logica assistenziale è solo una logica comune di oppressione, dove si ritiene che un individuo ricoverato in un’istituzione totaleGLO054 è un minorato, un tarato, un essere inferiore segnato da un fattore “x” di intolleranza biogenetica, neurologica, psichica e, quindi, non è niente altro che un individuo destinato a restare un subalterno.
Quando si cerca di cambiare questo tipo di situazione, l’istituzione, reagisce con silenzi impassibili ed incomprensibili, pensando e credendo che la “rivolta del disagio” non possa avere sbocchi, in quanto è imprigionata nei lager, nei raparti psichiatrici, nelle comunità di recupero per tossicodipendenti, aggrappata a fragili coscienze (di chi non aveva coscienza?) ed il tutto è destinato a tornare indietro a boomerang defluendo, fatalmente, nella sfiducia e nella rassegnazione.
Per questi motivi questo testo non dovrebbe avere inizi. L’inizio è li dove inizia il discorso, secondo il suo svolgimento, li dove esiste un punto di una sua possibile scomparsa.
In molte persone, specialmente nei detentori del potere chiamato scienza, esiste il desiderio di non doverlo mai cominciare, di ritrovarsi di colpo dall’altra parte del discorso, senza che chi ne sia esterno ne debba considerare ciò che può esserci di singolare e di temibile.
L’istituzione risponde ironicamente alla “rivolta del disagio” perché è capace di rendere grandiosi i suoi esordi, circondandoli di attenzione e di silenzio, imponendogli di essere segnalati da lontano come se fossero delle forme ritualizzate (Foucault, 1980aBIBLIO025).
Dobbiamo chiederci se il “discorso” e la “istituzione” sono simili o se sono solo due risposte opposte ad uno stesso problema.
Di fatto il problema nei confronti del quale ci muoviamo è una realtà nei confronti della quale esiste una transitorietà destinata a cancellarsi, se non viene riportata alla memoria, in una durata di tempo che non ci appartiene e non ci deve appartenere.
Il tutto si trasforma in un’inquietudine nei confronti della quale si avverte la presenza di poteri e pericoli appena immaginabili, si sospettano lotte, vittorie, ferite, dominazioni e servitù, attraverso tante di quelle parole che l’uso ha costretto a ridurne da molto tempo le asperità.
Esistono delle procedure interne al discorso che lo minano e lo impoveriscono, ed è, così, il discorso stesso ad esercitare un controllo su se stesso: è come se, ad esempio, si chiede ad un musicista di ricondurre il suo linguaggio musicale ad un’unità e ad una coerenza cercando di organizzargli una disciplina che gli richieda, di fatto, di iscrivere il suo discorso in un preciso orizzonte teorico sperzonalizzandolo.
L’appropriazione sociale del discorso, del linguaggio ed il motivo per cui viene distribuito per classi sociali è dovuta al fatto che il linguaggio comporta un sapere ed un potere.
TRA NORMALITA’ ED ANORMALITA’
“La miseria è un peso che ha un prezzo; si può attaccarlo ad una macchina e la farà funzionare; la malattia è una massa di cui non ci si può impadronire, non si può far altro che lasciarla cadere; essa intralcia di continuo e non aiuta mai”.
(Coqueau, Essai sur l’établissement des hôpitaux dans les grandes villes, 1787)
Non è fuori luogo parlare della definizione della malattia, sappiamo che lo stress, ad esempio, genera disturbi organici ma anche psicosomatici: del resto molti disturbi organici, generati dallo stress, presentano radici psicosomatiche.
Nell’antica Grecia si parlava di disarmonia dei fattori tra di loro squilibrati. Alcmeone, nel VI secolo a.C., fu il primo ad intuire che il cervello era l’organo del pensiero, parlava di egemonia del cervello sul resto del corpo, affermando che la salute è un equilibrio di forze: umido-secco, caldo-freddo, amaro-dolce.
E’ sufficiente che una di queste forze prenda il sopravvento sull’altra perché si generi una malattia. La salute, al contrario, si basa sull’isonomia tra queste forze.
Ippocrate, nell’approfondire questo tipo di analisi, arrivò alla convinzione che lo studio delle malattie dovesse essere fondato su quanto c’è di comune e quanto di individuale nella natura umana, estendendo l’analisi anche alle conseguenze che derivano dal disturbo.
Fino al Rinascimento si ritenne che le opere di Galeno contenessero già tutto il sapere sull’anatomia, sulla fisiologia e sulla patologiaGLO072 umana: questo tipo di convinzione ostacolò, non poco, il progresso e lo sviluppo della Medicina.
Fu William Harvey (1578-1657) che iniziò a ribaltare l’ottica galeniana, esponendo i risultati delle sue ricerche sulla circolazione sanguigna e rischiando, tra l’altro, che tutta la scienza medica del suo periodo gli si schierasse contro, ostracizzandoloGLO068, in quanto divenuta abitudinaria e sostenuta dal rispetto verso la propria autorità (Berlinguer, 1984BIBLIO011).
Nel XVII secolo progredì la conoscenza sulla differenza tra sano e malato. Giambattista Morgagni, propositore dell’Anatomia PatologicaGLO072, dimostrò che i sintomiGLO091 chimici corrispondevano a lesioni di organi interni e che queste lesioni erano rintracciabili durante l’autopsia.
Claude Bernard, in seguito, pose le basi per la Fisiopatologia, con l’assiomaGLO008 che se si è a conoscenza di un fenomeno fisiologico si è anche in grado di spiegarne i relativi disturbi che possono manifestarsi allo stato patologicoGLO072.
Il concetto che l’insieme delle funzioni tende a mantenere o ripristinare la costanza dell’ambiente interno, rispetto alle modificazioni di quello esterno, fu ripreso nel XX secolo da Sperry con la definizione della omeostasiGLO066.
Questo fu possibile grazie alla scoperta dei meccanismi regolatori dell’equilibrio fisiologico dell’organismo, sia nervosi che ormonali, di fronte agli agenti modificatori.
Da qui si arriva al concetto di stress comunemente usato, e cioè: l’esaurimento dei meccanismi di adattamento di fronte a stimolazioni intense e/o prolungate.
A questo punto si alimentò un altro fenomeno: la tendenza ad immaginare un rapporto semplificato tra normalità e patologiaGLO072.
Questo tipo di convinzione avallò l’illusione che qualsiasi forma di disturbo potesse essere riconosciuta attraverso il microscopio o debellata con sieri e/o vaccini, in quanto attribuibile a cause specifiche.
Cresce la conoscenza e cresce, di pari passo, la specializzazione: ciò che prima non era riconosciuto come malattia ora lo è!
Dobbiamo renderci conto che la società ha sempre attribuito alla scienza sia il compito di conoscere la malattia sia quello di combatterla e debellarla. Si può osservare che pur mutando le forme organizzative, i metodi scientifici e gli strumenti non muta la finalità: sconfiggere il male!
Quando si cerca di definire il termine malattia il discorso si complica, cioè quando ci si chiede quale sia la natura del fenomeno che si vuole controllare: se nei paesi in via di sviluppo essere malato significa, principalmente, essere denutrito o colpito da virus infettivi o da filovirusGLO039, nei paesi industrializzati questo è un problema risolto da tempo e malato significa, principalmente, essere colpiti da tumore, AIDS, avere disturbi psichici o cardiopatie.
Nei paesi in via di sviluppo il “segno” patologicoGLO072 del disturbo viene vissuto come “mandato dagli dei”, al contrario le cardiopatie, ad esempio di cui lo stress è la causa principale dell’insorgenza (a meno che non siano congenite), vengono vissute nei paesi industrializzati come una vera e propria menomazione.
Foucault (1977)BIBLIO025 osserva che è proprio la Medicina moderna a rompere il suo rapporto con il male, prescrivendo rigorosamente ed autoritariamente al malato ciò che deve fare per guarire.
Questo concetto evidenzia il “potere” che il curante ha sul curato (paziente), in questo modo il disagiato abbandona una parte di se che dovrebbe invece essere presente in lui proprio per combatterla.
E’, quindi, necessario che il malato venga a conoscenza del suo male per debellarlo con le proprie forze, specie se questo male è psicosomatico, in quanto la coscientizzazione del malessere può essere la “molla” principale per la sua risoluzione.
Esistono delle contraddizioni implicite nel modello culturale della malattia ed alla corrispondente logica della traduzione sanitaria di questa (Fontana, Missiroli, Scolari, 1982BIBLIO024).
La dipendenza cronicaGLO021 dall’Ospedale, come la tendenza a subire passivamente l’organizzarsi dello stato di malessere, nella forma e nella sequenza prevalente della sintomatologiaGLO091 somatica, è un esempio di quanto affermato fino ad ora.
Il problema diventa, quindi, quello di informare sulla salute e sulla malattia, non solo per un’esigenza di verità e lealtà ma anche per il permettere l’associazione tra sano e malato alla prevenzione ed alla cura (Lacerenza, Paesani, 1986a-bBIBLIO036).
Una delle trasformazioni del disagio psicologico e sociale si ha proprio nell’organizzarsi dello stato di malattia e, spesso, nella richiesta del ricovero (Fontana, Missiroli, Scolari, 1982BIBLIO024), come giustificazione sociale al fine di confermare il proprio statuto di malato: è necessario rispondere a queste manifestazioni con un codice meno neutrale e collusivo, quale è di fatto quello tradizionale.
Una delle tematiche più dibattute, sia nel campo medico che in quello psicologico, è il “confine” immaginario tra “normalità” ed “anormalità”. Il discorso si potrebbe chiude con una breve battuta: ognuno di noi è normale nella sua anormalità.
Questo è, però, vero sino ad un certo punto, in quanto la cultura, il gruppo sociale in cui viviamo fa sì che questa soglia esista a seconda delle regole che vigono tra gli individui.
E’ risaputo che risulta difficoltoso valutare che cosa è la norma sia nelle scienze fisiche che in quelle biologiche: ancora di più lo è se scendiamo nella Psicologia e nella Sociologia.
Le scienze biologiche focalizzanoGLO040 sempre di più la propria attenzione sull’individuo e sulle sue individualità, facendo sì che la soglia che divide la norma dall’anorma sia più dinamica: così facendo viene superata la rigidità prevalente del XIX secolo.
Questo è, però, possibile in Biologia ma non è così semplice per quanto concerne la malattia sia fisica che psicologica che psicosomatica, infatti, la distinzione tra normale, anormale e patologicoGLO072 diventa più complicata, anche se solo sul piano diagnostico.
Un esempio sulla disparità di giudizi sullo stesso caso clinico è riportato da Berlinguer (1984)BIBLIO011: negli USA furono sottoposti, a giudizio di quattordici cardiologi di fama, gli elettrocardiogrammi di trentotto persone. Gli si chiese se queste persone erano sospette o meno di avere avuto un’ischemia miocardica: le risposte variavano dal 5% al 50% degli esaminati!
Altre ricerche furono condotte sulle diagnosi nei disturbi psichici, mettendo in evidenza giudizi ancor più divergenti!
La diversità di opinione fa già pensare che ogni individuo ha un concetto di norma che differisce dagli altri: ogni persona è una norma e chi non rientra in questa sua ideologia viene definito diverso.
Anche se è indiscutibile che per alcuni fenomeni il problema si risolve facilmente, quando cioè il giudizio è di stretto ordine biologico, esistono comunque dei parametri che, in eccesso od in difetto, vengono valutati all’interno od all’esterno della norma, altri fenomeni vengono, invece, valutati secondo la cultura vigente nel gruppo sociale, come ad esempio il lavoro che si svolge, il grado culturale raggiunto, il reddito, ecc., ed è proprio il gruppo sociale a fare sì che questi parametri si trasformino in valutazioni di inclusione o di esclusione.
Possiamo, dunque, affermare che esiste una normalità biologica che differisce dalla normalità sociale e/o culturale: la prima si basa su parametri fisiobiologici oltre i quali si sconfina nella patologiaGLO072, la seconda possiede parametri e valutazioni esclusivamente etici e morali del comportamento, parametri che sono variabili a seconda del gruppo culturale.
Il campo biologico ed i campo sociale si ritrovano spesso intrecciati nei giudizi e non permettono un’obiettività di opinione e di diagnosi del e sul disturbo.
Un esempio di questo è la valutazione data sulla comparsa, tra i braccianti della Val Padana, della pellagra: la cultura dell’epoca, XIX secolo, considerò questa malattia dermatologica come modificazione della forma e della composizione dell’organismo oltre che di origine ereditaria.
Se ne ebbe come risultato che i malati di pellagra vennero spesso (e volentieri trattandosi di poveri) ricoverati in manicomio, questo perché si considerava che l’anormalità era nella costituzione fisica dei braccianti e non nella nutrizione da loro seguita. Il fatto che questo disturbo si fosse verificato solo allora non sfiorò neppure le colte menti degli studiosi e dei medici di quel periodo.
Nell’antichità un’infermità, grave ed improvvisa, come l’epilessia veniva percepita come segno divino o come possessione del demonio, a seconda del gruppo sociale di appartenenza, nonostante che già Ippocrate avesse chiarito che non si trattava di un “male sacro” ma di un disturbo scientificamente riconoscibile.
Come si può ben comprendere la cultura può portare a generalizzazioni, ma un male ancora più grave è l’ideologizzazione: per molto tempo in nome dell’ideologia si è teso a considerare tutti i disagi solo come generati dalla società!
Questo è un errore in quanto non è possibile considerare un disturbo patologicoGLO072 solo generato dalla società, significa fermare, castrare il processo scientifico o, peggio, non volere condividere e socializzare le conoscenze scientifiche con gli altri. A meno che non si tratti solo di grassa ignoranza.
E’ possibile discutere sull’asse sanità/malattia, sull’asse normalità/anormalità, ma non è possibile discutere sull’asse normalità/anormalità/patologiaGLO072: se è vero che normalità ed anormalità sono concettualizzazioni culturali è anche vero che la patologiaGLO072 è provata scientificamente ed è quindi riconoscibile e ripetibile.
Gli handicap sia fisici che mentale, dunque, esistono!
Altro rischio in cui non si deve cadere è la categorizzazione della salute come rientrante nella norma ed il disagio come devianza dalla norma stessa: sia la salute che il disagio fanno parte dello stesso processo fisiobiopsichico e determinano specifiche conseguenze nel quotidiano: l’esclusione del disagiato può portare all’aggravamento della patologiaGLO072, una sua accettazione può, invece, portare ad una attenuazione del disturbo in atto.
La malattia, il disagio, nel momento in cui si manifesta rappresenta una diversità più che una devianza: se è vero che non tutti i fenomeni di anormalità possono venire definiti “malattia” è altrettanto vero che non tutti i disagi presentano basi fisiobiopsichiche.
In un contesto sociale, quale quello occidentale, fondato dal nucleo centrale intorno al quale ruotano i consumatori dei beni e dei servizi, organizzati dal nucleo centrale stesso, si spostano alla “periferia” del cerchio dei consumatori quelle persone che, per la società, non hanno alcuna funzione significativa, convertendo nella stessa terminologia disagiato, devianteGLO028, malato e definendoli marginaliGLO055.
Non tutti i marginaliGLO055 sono però uguali, vi sono tra questi delle persone che si ribellano alla centralità sociale, perseguendo il raggiungimento di una realizzazione personale ed uno sviluppo di una propria esperienza interiore.
Un gruppo sociale organizzato in modo di accogliere il diverso, il disagiato presenta un’opportunità che non va ostacolata perché porterebbe a quelle discriminazioni che, ad esempio, hanno portato al ricovero manicomiale un’infinità di persone escluse dalla società solo per la loro improduttività e per il loro reddito. Ricordiamoci che una società rurale, rispetto a quella industriale, permette una maggiore integrazione del disagiato proprio perché è meno competitiva.
Nel corso della vita, durante la quale gli uomini cambiano continuamente, nei tentativi di operare, si può verificare un’attività di arresto (black-out) della mente.
Uznazde, Prangisuili, Bassin e Ranzran (1972)BIBLIO055 affermano che invece di provare a mettere in pratica una modalità particolare di agire e pensare, la persona si ferma, trattiene il suo pensiero ed interrompe il suo tentativo: invece di continuare l’attività la blocca e la trattiene per un certo periodo di tempo.
L’individuo, dunque, invece di agire nella direzione voluta dall’Io preferisce arrestare la sua attività e bloccarla per un po’ di tempo. Naturalmente (come suggeriscono Uznazde, Prangisuili, Bassin e RanzranBIBLIO055) non si ha un arresto completo del lavoro mentale anzi la mente, in quel momento, è particolarmente forte: invece di continuare ad andare avanti si ferma, non in modo di fare cessare contemporaneamente tutte le sue attività ma solo per potere rivivere, in seguito, l’evento per cui c’è stato il black-out.
Questo tipo di esperienza, ripetuta e continua dello stesso evento, rappresenta lo stato specifico dell’individuo in quel determinato momento.
Si ha, quindi, l’esperienza di particolari eventi, di realtà come di qualsiasi altra cosa, indipendentemente da noi stessi e questa esperienza è un qualcosa di prettamente oggettivo. In questo modo non si ha solo esperienza di un qualcosa mentre la si agisce ma, l’esperienza, può tornare e rimanere per lungo tempo.
L’identità dell’esperienza implica, a sua volta, la presenza di una qualche forma di proprietà permanente dell’oggetto, della sua identità con se stesso: se si ritiene, però, che l’oggettivare un qualcosa significa confrontarla con se stessa e solo con essa, allora possiamo affermare ad un qualcosa che sia completamente identica a se stessa.
Dunque, per quanto possibile, si deve avere un’idea preliminare di ciò che in seguito si confronterà, al modo con cui si cerca di avere l’idea dell’identità.
Secondo Uznazde, Prangisuili, Bassin e Ranzran (1972)BIBLIO055 è in quest’atto di oggettivazione che si pone in risalto a dare l’idea finale. Questa specifica attività, psicologicamente indipendente, fa in modo che ci sia un atto supplementare, ma al tempo stesso essenziale, senza il quale ogni ulteriore sviluppo sarebbe impossibile: è sull’atto di identificazione che sono basati gli atti fondamentali del pensiero logico.
L’uomo trova difficoltà ad usare la sua consapevolezza di identità senza il linguaggio, il che determina la possibilità pratica di manipolare l’identità od in caso di bisogno od a volontà: quando un’esperienza ha luogo nella coscienza viene astratta nel linguaggio.
La connessione tra linguaggio e pensiero è talmente stretta che non è possibile concepirli come indipendenti tra di loro: nella coscienza, linguaggio e pensiero, sono connessi in modo indissolubile.
Alcuni tipi di disagio sono stati considerati, nel corso dei tempi e con diverse motivazioni, un pericolo per la società: dal rischio del contagio al disturbo che il disagiato può portare al gruppo.
Questo fatto ha incanalato negli individui la ricerca di un capro espiatorioGLO012 su cui scaricare i malesseri della società, in modo di liberarsi dai malesseri stessi ed accentuando, di fatto, le difficoltà dell’inserimento (o reinserimento) del disagiato nel contesto sociale e/o familiare.
Nella società occidentale viene enfatizzato il valore del conformarsi alle regole e la tendenza è sempre più crescente: anche il trasgredire ad ordine e con una certa modalità (tipo l’assumere ecstasi, o le stragi del sabato sera, lo scandalizzare alla Sgarbi o gli atti di “insubordinazione” legale alla Pannella) significa solo fare assegnamento per le proprie finalità sul potere diretto.
Basaglia ed Ongaro Basaglia (1978)BIBLIO007 affermano che il potere diretto viene abitualmente esercitato allo scopo di isolare e di neutralizzare i gruppi e gli individui che fanno “resistenza”, in modo di impedirgli l’accesso al potere, negando loro i mezzi atti a favorire gli scopi ed i valori deviantiGLO028 che perseguono: il metodo più efficace è il ritardare, l’interrompere od il bloccare qualsiasi fluire delle informazioni.
In questo meccanismo subentrano, però, i mezzi per identificare il più ed il meno, il buono ed il cattivo e chi indossa il “vestito fatto per altri”, cioè chi segue e persegue una realtà che non gli appartiene, arriva a non accorgersene più in quanto viene obliatoGLO065 dall’ideologia e deve essere considerato alla stessa stregua di un disagiato psichico, in quanto non comprende più cosa significhi “indossare un vestito su misura”, cioè vivere la propria realtà.
Per questi motivi non è giustificabile che il disagiato psichico venga dimesso dall’Ospedale Psichiatrico o non ricoverato o dimesso da un Servizio di Diagnosi e Cura, abbandonandolo al suo destino ed aggravando, così, le sue condizioni, quelle del suo nucleo familiare e del contesto sociale che lo circonda.
A questo punto non si può che affrontare una nota dolente nel sistema assistenziale italiano: la riabilitazioneGLO084.
Con questo termine si deve intendere tutto il lavoro fatto sul disagiato, atto al recupero ed al suo reinserimento nella società, rispettando la sua personalità e la sua anormalità ed “adattando” quest’ultima alla convivenza sociale (Lacerenza, Paesani, 1986a-bBIBLIO036).
Escludere i disagiati rinchiudendoli in ospedali “specializzati”, significa bollarli come pericolosi per la società: il disagio di uno è il segnale di un fenomeno più collettivo e l’indifferenza o l’ostilità verso le persone portatrici di handicap, fisici e/o psichici, è spesso il rifiuto nell’accettare la propria diversità.
Sin dall’infanzia, attraverso il meccanismo di prescrizioni e punizioni, si apprende, gradualmente, il comportamento conforme al modello sociale: l’indignazione, l’impazienza, il disgusto e l’entusiasmo possono, in certi momenti, sembrare autorizzati ma non per questo giustificati.
Diventa, perciò, più semplice trattenersi o cambiare atteggiamento interno piuttosto che il doversi rimangiare le parole o discolparsi pubblicamente. L’autocontrollo serve ad informare sia il comportamento interiore che quello esteriore delle situazioni in atto, ma non prende in considerazione che la reazione emotiva è comunicabile solo imperfettamente (Lacerenza, Cosentino, Scivoletto, 1987BIBLIO036).
L’emozione non viene, in questo modo, localizzata, identificata o descritta soddisfacentemente, al contrario del linguaggio che può apparire completamente sociale, sia nell’origine che nell’organizzazione, anche se nel tempo, nel colloquio e nella pratica psicoterapeutica diventa individualizzato. Questo è dovuto al fatto che un linguaggio che esprima un pensiero particolare può essere sostituito, di contro è impossibile avere dei pensieri, od emozioni, ed usarli ripetutamente senza l’intervento del linguaggio: il pensiero, l’emozione, è quindi connesso al linguaggio non solo di fatto ma anche per necessità.
Tutto questo meccanismo è condizionato dal fatto che non c’è niente di più difficile che fare comprendere a noi stessi, ed ancor di più agli altri, un’emozione.
L’importanza della comunicabilità emozionale diventa sempre più marcata con il crescere dell’età, quando cioè si arriva a rendersi conto che lo standard della reazione emotiva e la sua accettazione cambiano e sono, per questo, accettati in modo diverso.
La comunicazione tra persone può avvenire o direttamente, cioè comunicando verbalmente e/o drammatizzando attraverso il corpo, od indirettamente, in modo che una persona e/o una cosa e/o un atteggiamento ne diventino portavoce.
Si deve, inoltre, distinguere tra comunicazione indiretta che si mostra come acting-outGLO003 (agire al di fuori come difesa contro la comunicazione stessa), dalla comunicazione indiretta attraverso altre persone e/o cose (oggetto transazionale della comunicazione).
La persona che vive di molteplici rapporti può risultare, paradossalmenteGLO070, l’individuo più solitario, mentre chi è apparentemente solo può essere colui che ricerca la possibilità, in ogni momento, di “aprirsi e darsi al mondo”.
Questo avviene in quanto, nel primo caso, la persona vive di rapporti convenzionali, futili e contingenti mentre, nel secondo caso, sa trovare anche in un solo rapporto il suo vero significato, traendone gli elementi essenziali della vita (Lacerenza, Cosentino, Scivoletto, 1987BIBLIO036).
L’azione psicoterapeutica diventa così un atto complementare, nella quale il problema fondamentale è quello di una compensazione che se all’inizio può avere una valenza affettiva deve, in seguito, diventare strutturale, in modo di colmare quel vuoto che si è venuto a determinare.
Per azione di compensazione strutturale si deve intendere un’azione di ricostruzione definitiva, sulla quale può reintegrarsi lo stato dissolutivo determinato dal disagio (Lacerenza, Cosentino, Scivoletto, 1987BIBLIO036).
Normalità ed anormalità, salute e malattia, convivono dentro di noi e sta proprio a noi permettere a loro di esplicarsiGLO035 o meno; l’esplicazioneGLO035 può accadere in varie forme ma mai nessuna di queste può giustificare l’emarginazione, l’esclusione ed il ricovero a vita: ciò che deve mutare è il rapporto con la società, nella quale si va ad inserire il rapporto tra salute e malattia.
Per arrivare a questo si deve riconoscere che la strategia, la prima finalità di ogni azione, è l’uomo, i suoi bisogni, la sua vita all’interno di una collettività, che si trasforma per raggiungere la soddisfazione e la realizzazione di questi bisogni (Mistura, 1982BIBLIO044).
DISAGIO E CONTESTO SOCIALE
“La malattia non ha la sua realtà ed il suo valore di malattia che all’interno di una cultura che la riconosce come tale”.
(Foucault, Maldie mentale et psychologie, 1961)
Prima ancora di avventurarci nella disaminaGLO029 del rapporto tra un disagiato ed il contesto sociale che lo circonda, ritengo opportuno dare uno sguardo alla psicanalisi ed al suo concetto di Psicologia delle masse.
Freud (1975a)BIBLIO026 afferma che la contrapposizione tra Psicologia individuale e Psicologia sociale (o delle masse), contrapposizione che a prima vista può sembrare molto importante perde, ad una considerazione più attenta, gran parte della sua nettezza.
La Psicologia individuale verte sull’uomo, inteso nella sua individualità, mirando a scoprire i tramiti per cui questo cerchi di conseguire il soddisfacimento dei propri moti personali, anche se solo in determinate condizioni eccezionali riesce a prescindere dalle relazioni del singolo con gli altri individui.
Nella vita psichica del singolo individuo l’altro è costantemente e regolarmente presente come un modello, come un oggetto, come un soccorritore, come un nemico e pertanto, prendendo il tutto in un’accezione più ampia e legittima, la Psicologia individuale è anche, fin dall’inizio, Psicologia sociale.
Da questo punto di vista il rapporto che si viene ad instaurare tra il singolo ed i propri genitori, i propri familiari, con l’”oggetto d’amore” e con tutte quelle persone che per lui sono significative, è da considerarsi come un rapporto sociale che si va a contrapporre al narcisismo, cioè li dove il soddisfacimento della pulsione nasconde e rifiuta la presenza e l’influsso degli altri.
Non si deve, in tutto questo discorso, dimenticare che l’individuo subisce l’influenza di una o più persone (oggetto stimolo modello) e che questa influenza assume, con l’andare del tempo, un significato di particolare importanza. Non è, dunque, possibile considerare questo processo scissoGLO088 dalla personalità del singolo e del suo contesto sociale.
Freud (1975a)BIBLIO026 afferma che l’individuo fa parte di una stirpe, di un popolo, di una casta, di un ceto sociale, di un’istituzione che in vista di un determinato fine si è organizzato come massa (gruppo).
Considerare la natura dell’esperienza come condivisa dal gruppo, nel suo insieme, significa produrre delle interferenze sulla natura e sul contenuto dell’esperienza.
Per Esterson (1982)BIBLIO023 il dimostrare come l’esperienza e le azioni di persone, che vengono definite schizofrenicheGLO087, acquistano una comprensibilità sociale maggiore di quanto, comunemente, si creda è possibile solo rileggendo queste persone nel contesto familiare e/o nel nucleo sociale di appartenenza.
Quindi, la pulsione sociale non è un qualcosa di originario e scomponibile posta antecedentemente alla sua costituzione ma può essere individuata in un cerchio più ristretto che è la famiglia.
Mi si può contestare, a questo punto, che è la società a prescrivere all’individuo le proprie regole e non la famiglia, che ha fatto sue le regole sociali, ma non dimentichiamo che la famiglia è di per sé una società da cui si acquisisce un influsso duale: da una parte il nucleo familiare che è il contesto sociale primario, dall’altra il nucleo sociale che è il contesto sociale secondario.
Da questa suddivisione potrebbe nascere della confusione, essendo poi contraddittorio per l’individuo scindereGLO088 la famiglia dalla società.
L’aspetto importante dello schematismo della contraddizione è proprio rappresentato dalla confusione che non viene riconosciuta, tra la prassi ed il processo con cui ci si scontra, nella considerazione del comportamento e dell’esperienza della personalità schizofrenicaGLO086, le cui azioni vengono vissute come il risultato di un processo e non come espressione della sua intenzionalità: la confusione diventa più accentuata quando la persona cerca di agire autonomamente.
Tutto questo avviene in quanto gli individui, unitisi in folla, costituiscono una massa psicologica che richiede, come condizione di appartenenza, un sentimento in comune (che può essere l’interesse, un oggetto, un orientamento) che non è niente altro che l’acquisizione di una capacità di influenzarsi vicendevolmente.
Per Freud (1975a)BIBLIO026 più sono marcati questi tratti comuni più facilmente una massa psicologica si forma a partire dai singoli e le manifestazioni di una psiche collettiva acquisiscono uno spessore maggiore.
Uno dei fenomeni più importanti nella coesione della massa è l’esaltazione dell’affettività che, in altre condizioni, presenta proporzioni più modeste ed è proprio la massa, la storia della massa, che da ad ogni individuo una sensazioneGLO090 piacevole di rilasciarsi a manifestazioni, anche se non conformi comunque, incorporate nel senso delle norme e delle relative deviazioni della collettività degli individui che formano la massa stessa, perdendo in questo modo il proprio senso di limitatezza individuale.
L’esaltazione dell’affettività viene favorita dall’influenza che la massa ha originato, o che può originare. Il singolo vive la sua esaltazione nell’impressione di una potenza illimitata della massa stessa, questo per lui costituisce un pericolo insuperabile permettendogli, al tempo stesso, di sostituire la massa (intesa come gruppo di appartenenza) alla società (intesa nella globalità degli esseri) e spostando in questo modo l’autorità della massa e le sue punizioni, che vengono temute più di quelle sociali.
Ad esempio, un rapporto duraturo tra due o più persone ha, nel suo contesto, un insieme di sentimenti che vanno dall’ostilità all’amore: questo contesto non è percettibile dai soggetti solo grazie alla rimozione dei sentimenti primari.
Cercherò di spiegarmi meglio. A volte i rapporti sentimentali hanno come base un’”ostilità” di fondo, un po’ come l’odio-amore di freudiana memoria. Questa “ostilità” a volte viene rimossa per lasciare spazio alla simpatia ed, inseguito, all’affetto ed all’amore.
Il contestare ed il contestarsi è implicito nel vivere sociale, ancor di più in una coppia che vive un rapporto sentimentale: quando due persone decidono di sposarsi, o di vivere insieme, le singole famiglie ritengono di essere l’una migliore dell’altra, una più distinta dell’altra.
Il vincolo, così, non unisce ma tende a separare i due contesti, di per sé regolati da norme diverse, ma il vincolo va al contempo a creare un nuovo contesto, regolato a sua volta da norme diverse dalle altre in quanto è la somma e la sintesi delle norme dei due contesti di appartenenza.
L’ostilità che ha come oggetto la persona amata assume, dunque, un significato di ambivalenza emotiva: l’individuo tende a farsi una ragione di questa ambivalenza, razionalizzandola con motivazioni di conflitti di interesse che, di fatto, nascono all’interno delle relazioni strette.
Freud (1975a)BIBLIO026 afferma che all’interno di questo meccanismo è avvertibile l’espressione di un amore per noi medesimi, di un narcisismo che tende all’autoaffermazione. comportandosi come se la semplice presenza di uno scostamento dalla propria linea di sviluppo implicasse, di per sé, una critica dell’invito a modificarla.
L’intolleranza, con il tempo ed attraverso il vivere collettivo, tende a scomparire nell’identificazione nella massa, permettendo al singolo di comportarsi in modo omogeneo tollerando dagli altri, che vengono così considerati simili che non provano intolleranza nei suoi confronti: l’amore per sé trova, in questo modo, il proprio limite nell’amore esterno per gli oggetti esterni.
Nel nucleo sociale, nella famiglia, la persona viene vissuta ed etichettata come se fosse “intrappolata” in una rete interazionale di fraintendimenti, caratterizzata da ambiguità e da contraddizioni che possono presentarsi anche come mistificantiGLO063 della situazione stessa.
Vi sono delle difficoltà a classificare i ruoli sociali, in quanto negli anni e nella loro evoluzione le varie società hanno sviluppato una serie, sempre maggiore, di sottosistemi e di istituzioni di carattere sia formale che informale, nei quali ogni singolo membro esplicaGLO035 un ruolo ben preciso.
A seconda del gruppo sociale di appartenenza ci si trova davanti a ruoli ben definiti e delimitati, in altri gruppi sociali i limiti e la definizione dei ruoli è ambigua: alcuni sono centralistici altri instabili, alcuni vengono consapevolmente accettati altri, invece, dichiaratamente rifiutati.
Si deve, dunque, fare una distinzione nei ruoli sociali, al fine meglio orientarsi nell’argomento: esistono ruoli formali e ruoli informali, ruoli imposti e ruoli effettivamente assunti, ruoli impliciti e ruoli espliciti.
Stierlin (1981)BIBLIO053 afferma che tutti questi ruoli si intrecciano tra di loro, gli uni con gli altri, e non di rado entrano in conflitto.
Più si definisce un ruolo sociale ed i sistemi in cui questo è immerso ed integrato, meglio si può arrivare alla comprensione dello sviluppo dei conflitti che ne emergono.
La disponibilità e l’adesione al gruppo sociale, da parte del singolo individuo, può venire meno minacciando, così, la società stessa, in questo modo alla persona viene data, da parte del gruppo sociale, la caratteristica di devianteGLO028 dal gruppo, immettendolo in un circuito disgregante, prima ancora di essere “risocializzato”.
La risocializzazione è un processo, un meccanismo, che induce, o reinduce, un ruolo sociale e richiede la presenza sia dei membri della “famiglia” che del contesto sociale, muovendosi con schemi ben definiti, distribuendo premi e sanzioni per meglio “educare” l’individuo secondo i modelli del gruppo sociale.
Berlinguer (1984)BIBLIO011 sostiene che è indiscutibile l’affermazione secondo cui esiste sempre nei malati una riduzione delle capacità di adattamento all’ambiente. Se è vero questo, ancora più controverso appare il concetto secondo cui, nell’uomo, la malattia comporta la riduzione temporanea delle sue capacità lavorative.
E’ pericoloso accettare, nel quotidiano, quale normalità un metro di giudizio basato solo sul rendimento, facendolo si giustificherebbe una definizione di salute come condizione per la capacità ottimale di una persona ad adempiere con efficienza ai ruoli ed ai compiti per i quali è stato “socializzato”: il processo di socializzazione, ed ancor di più quello della risocializzazione, non è mai spontaneo ma deve essere guidato e manovrato dall’esterno.
Se noi scrutiamo oltre la mascheraGLO056, l’apparenza, dell’individuo troviamo degli indizi che ci permettono di vederlo nella sua globale personalità, riuscendo ad intravedere sia il “sano” che il “malato” della persona. In questo modo vengono alla luce, oltre l’apparenza, i tratti personologici che non sono stati modificati e che continuano a fare parte sia della mascheraGLO056 che del carattere.
Si deve fare molta attenzione a questo meccanismo (al giocare con il doppio ruolo), in quanto la sua eccessività porta l’individuo a trascendere arrivando a produrre una proiezione di messaggi contraddittori, al fare risuonare la propria “voce” (quella che non si sa più essere la propria), a mostrarsi e rivelarsi per ciò che si è veramente e che si è tentato di tenere, a tutti i costi, nascosto a se stesso ed agli altri.
Resnik (1976)BIBLIO050 definisce questo meccanismo come “invisibilità”, in quanto si esprime come disconoscimentoGLO031 dell’esistenza di alcune parti dell’organismo, o della propria personalità o di messaggi che arrivano dall’interno ed esterno del proprio corpo.
Si viene così ad avere una visione interna negativa, che porta alla percezione di una mancanza, facendo in modo che ciò che è stato “cancellato” diventi presente, ciò è possibile in quanto l’organo o la parte del corpo negata è, allo stesso tempo, segno e luogo di esperienze penose che l’Io non ha potuto tollerare.
Questo tipo di manifestazione di “invisibilità” può essere un indizio di un carattere depressoGLO025 o paranoico che, pur essendo stato negato, rivela la sua presenza proprio attraverso il meccanismo di negazione, ci si rifiuta, cioè, di affrontare la realtà dissociandosi da questa e dal proprio vissuto corporeo, facendolo diventare l’organismo un ricettacolo di proiezioni interne, scegliendo un “oggetto” sul quale effettuare la somatizzazione angosciosa e determinando una topologia comune che diventa sintassi corporea. Ci troviamo di fronte ad un paradossoGLO070: il corpo rivela ciò che l’Io rimuove (Lacerenza, 1986BIBLIO036).
Tornando al sociale, anche se non abbiamo di molto dirottato il discorso con questa chiarificazione in quanto l’”oggetto” somatizzato spesso è al di fuori del corpo, l’individuo viene a ritrovarsi corazzato contro una realtà che lo bombarda di stimoli, fino a perdere il contatto con il proprio vissuto corporeo e con il proprio apparato psichico, lasciandosi “controllare” dalla società come se fosse un burattino, perdendo così la condizione di individuo per trasformarsi, in seguito, in un ingranaggio catatonicoGLO049: in questo modo il gruppo sociale può assegnargli un ruolo ed una funzione che lo aiutano a drammatizzare il proprio soma.
In questo stato il pensiero ed il corpo rappresentano due realtà separate, che mantengono dei legami nascosti, o perduti: sono proprio questi legami che debbono essere riscoperti.
Resnik (1976)BIBLIO050, riferendosi a questo meccanismo di negazione, afferma che la fenomenologiaGLO038 dell’intenzionalità corporea trova nella catatonia un ricco terreno di esplorazione.
In questo stato gli elementi non verbali diventano particolarmente significativi, se si tiene presente la povertà apparente dell’espressione verbale: quando la persona parla è il suo corpo che presta un senso alla parola.
La differenza tra “soggetto” ed “oggetto” appare, in questo stato, abbastanza difficoltosa, chiarirla implica l’accettazione del passaggio dal mondo collettivo al mondo individuale, in pratica è come se ci trovassimo di fronte ad un neonato che passa dallo svezzamento alla separazione dalla madre, questo passaggio viene costruito dall’individuo solo attraverso dei momenti illusori, od in dati di scambio di situazioni indeterminabili ed imprevedibili, tra attese e desideri di ciascun membro del gruppo sociale.
Spesso, ad esempio, ci si aspetta da un bambino, che in età prescolare mostra una certa vivacità, il raggiungimento di buoni risultati nello studio e si rimane delusi quando questi risultati tardano ad arrivare: si riversano, cioè, a volte troppe speranze sulla mascheraGLO056, responsabilizzandoGLO083 la persona senza approfondire la conoscenza delle sue reali capacità, facendo sì che al primo errore segua una delusione ed una conseguente colpevolizzazione dell’individuo, sia da parte del gruppo sociale che di una singola persona.
Più il vissuto è penoso, o persecutorio, più è lontano il luogo dove la persona proietta il proprio malessere, al massimo della proiezione l’individuo si svuota, comportandosi come se fosse sprovvisto di un mondo interiore. Il corpo diventa, così, uno spazio vuoto ed il pensiero si impoverisce fino ad arrivare all’annientamento: ciò che prima era all’interno ora viene proiettato all’esterno.
A volte accade che si proietta al di fuori anche ciò che si ha di “sano”, questo avviene più che altro per proteggere la parte “sana” dalla distruzione che si verificherebbe nel soma. Si hanno, perciò, delle espulsioni di frammenti del sistema sensoriale che acquistano un’esistenza indipendente alloggiando in oggetti esterni e modificandone la natura.
AllucinazioniGLO004 e deliriGLO024 impongono, in questo modo, una propria visione del mondo, non accettando più un rapporto con il reale, cambiando e trasformando il tutto con la manipolazione. Il resto della società non viene, così, più vissuta come indipendente ma come un insieme, incorporando un comportamento egocentrico che può manifestarsi come “fuga”.
La dicotomia tra l’affermazione pubblica ed il discorso interiore, cioè tra ciò che si dice a se stesso e ciò che si dice agli altri, è paragonabile ad una sensazioneGLO090 o ad una manifestazione emotiva. Ciò che è permesso viene prescritto dal gruppo sociale e dalla cultura, in questo modo, fin dall’infanzia, attraverso prescrizioni e punizioni si ha un graduale apprendimento che permette il conformarsi al modello sociale e culturale “accettato”.
Questo meccanismo porta al mentire ed all’accumulazione di fattori di disagio, determinando l’allontanamento interiore dell’individuo dalla norma.
Quindi è soltanto avendo presente la struttura delle relazioni ed interrelazioni sociali che l’individuo vive e si pone, che si verifica il successo od il fallimento della socializzazione, cioè la salute o la malattia (disagio) socialmente caratterizzata e sanzionante (Ammaniti, Antonucci, Jaccarino, 1975BIBLIO004).
Non si deve, però, cadere nell’errore di mitizzare il fatto che una semplice modificazione funzionale del sociale e dell’ideologico possono portare ad una mancanza di sintomatologieGLO091 patologicheGLO072, come per molto tempo si è fatto con un certo discorso antipsichiatrico, dove si negava in todo l’organicità della malattia mentale, determinando così l’assiomaGLO008 che il disturbo schizofrenicoGLO086 sia originato da un più largo disagio sociale: c’è anche quello ma non si deve mai escludere a priori una causa od una concausa organica.
Solo dopo avere accertato che questa causa, o concausa, organica non sia presente si può lavorare sul disagio sociale.
La doppia natura, biologica e sociale, dell’uomo porta a conflitti e dissociazioni che non sempre escludono una dialettica interna e/o esterna, non sempre si può contrapporre il biologico al sociale (o viceversa) in quanto le esigenze istintualiGLO051 non sono del tutto preformate ma cambiano con l’accrescere delle esperienze emotive, quindi il contrasto del disagiato non è fondato in tutto e per tutto sulla “famiglia” e sul suo ambiente sociale, sviluppando in questo modo un dramma che può venire scambiato come uguale a se stesso (Jervis, 1973BIBLIO033) ma anche e principalmente nel proprio interno.
Ammaniti, Antonucci e Jaccarino (1975)BIBLIO004 affermano che per molto tempo in nome del principio di realtà è stata imposta una rinuncia alla soddisfazione immediata delle pulsioni.
Rivalutando questo principio (datato) ci si può riferire ad un’organizzazione sociale in cui la repressioneGLO082 viene connessa al dominio di una classe sociale sull’altra quindi, parlando di repressioneGLO082 dell’istintualitàGLO051, si deve tenere presente la matrice sociale degli istinti stessi e delle diverse esigenze che nascono dalla conoscenza del sé nell’uomo con il variare dei tempi.
Vivere questa repressioneGLO082 senza potersene liberare crea disagio ed insofferenza: il vivere questo disagio in modo individualistico, l’esservi immersi e l’esserne in parte soffocati senza una piena conoscenza del suo significato, porta alla nevrosi.
Piro (1971)BIBLIO048 parla del disagio psichico come di una contraddizione interna non cosciente, questa contraddizione viene determinata dal contrasto che si determina nel gruppo sociale. Per cui il disagio psichico non è niente altro che un fallimento individuale per un’incapacità nel superare dialetticamente la conservazione e l’evoluzione del gruppo sociale.
La “famiglia” diventa, in questo modo, un tramite di mediazione tra il disagiato ed il contesto sociale ponendosi, al tempo stesso, come contrapposizione dialettica all’organizzazione sociale scelta dall’individuo: la rottura di questa dialettica porta ad un aumento delle difficoltà psicologiche sia individuali che di confronto con il gruppo sociale.
Le contraddizioni personali si modificano in relazione alle condizioni di vita e di lavoro e, in un sistema sociale eterotipicoGLO036 quale quello occidentale, il riconoscersi o meno in un contesto sociale viene dato da una serie incontrollata e/o incontrollabile di variabili.
Il sistema sociale eterotipicoGLO036 è, di fatto, portatore di difficoltà per le persone, in quanto le rende fragili e vulnerabili psicologicamente: In questo sistema sociale la scissioneGLO088 tra ciò che si fa e ciò che si afferma, la stessa scissioneGLO088 esistente tra diversi livelli di comunicazione, rende ogni rapporto interpersonale ed ogni legame, con le condizioni della propria esistenza, ambiguo ed ambivalente.
La duplicità e l’ambivalenza delle cose, degli atti e dei sentimenti, avvicina l’universo del normale a quello del folle.
Laing (1969)BIBLIO037, parlando della mistificazioneGLO063 che la famiglia attua al proprio interno, si riferisce ai rapporti di classe nella società: l’ineguaglianza sociale e l’ambiguità del rapporto produttivo, infatti, condizionano il funzionamento del rapporto intrafamiliare, in quanto la famiglia è in primis formatrice e viene regolata da norme e regole che mediano la struttura sociale.
Le divergenze ed i contrasti interni di un nucleo familiare, possono portare alla mistificazioneGLO063, questo non è niente altro che un escamotageGLO034 al fine di evitare un conflitto o per nasconderlo. Ad esempio, se un membro del nucleo familiare vuole ottenere qualcosa, senza peraltro assumere una posizione precisa, attribuisce agli altri, o ad un altro, i desideri che corrispondono al suo volere.
In questo senso la mistificazioneGLO063 diventa un “educare” gli altri secondo le proprie norme, in modo da sconfermare l’esperienza fatta autonomamente dagli altri ed arrivando, patologicamenteGLO072 parlando, a provocare una confusione in tutte le esperienze passate, in atto e/o future.
Il mantenimento dello stereotipoGLO094 del ruolo è solo una modalità posta in atto al fine di mantenere il “potere” in un assetto sociale che, inevitabilmente, provoca una repressioneGLO082 dei bisogni e delle istanze. Questo meccanismo di mantenimento può portare alla rottura del precedente equilibrio, in quanto mantenere la propria percezione del mondo significa, peraltro, restare ancorati alla realtà anche se ciò può portare alla rottura con il sociale di appartenenza, al contrario dell’accettazione della percezione della realtà degli altri che, in contrasto, provoca una distorsione delle proprie strutture percettive.
Watzalawick (1971)BIBLIO059 afferma che la mistificazioneGLO063, come il paradossoGLO070 e le strategie di relazione, viene utilizzata in ogni contesto sociale creando nei vari individui, sottoposti a questi meccanismi, dei falsi bisogni, portandoli al perseguimento di mete estranee a loro, anche se queste, come afferma De Grada (1972)BIBLIO021, possono essere vissute come proprie.
La mediazione e la contraddizione, esistenti nel contesto sociale, portano ad una designazione di uno o più membri come capro espiatorioGLO012 del disagio collettivo.
L’ambivalenza intrinsecaGLO050 di ogni individuo, che scindeGLO088 la coscienza individuale fino alla follia, deve essere messa in stretta relazione con l’organizzazione del lavoro e con la condizione che questa determina.
Rinchiudere la persona nella propria coscienza individuale non aiuta la comprensione delle cause che hanno determinato il sistema di relazioni sociali, così come una scissioneGLO088 del proprio corpo sociale è l’elemento insuperabile per una risposta alle problematiche che gli si vengono a presentare.
L’introiezione delle contraddizioni si verifica, perciò, in primo luogo nell’azione mediatrice che esplicaGLO035 la famiglia, che sacrifica la libertà e l’indipendenza dei vari membri alla necessità della continuazione del proprio sistema sociale.
Si deve, quindi, valutare il disagio come espressione di una contraddizione storica, riconoscendo che è la stessa attenzione psichiatrica (e/o psicologica) ad assegnare il ruolo del paziente ed a designarne la malattia.
Per AdamoBIBLIO002 (1982) è prioritaria la necessità di ben comprendere i circuito di controllo, anche al di fuori dei luoghi tradizionali di una istituzionalizzazioneGLO052.
Il disagio ha una sua connotazione e fisionomia all’interno del gruppo familiare, prima, e delle relazioni interpersonali con il gruppo sociale in cui l’individuo si inserisce, in seguito.
In questo modo si ha un’interazione tra disagio ed immagine, individuale e collettiva. Interazione che è possibile percepire e che presenta un ruolo predominante sull’espressione delle difficoltà determinando, al contempo, un ostacolo per la stessa risoluzione delle difficoltà.
Per entrare in questo meccanismo, cercando di comprenderlo, non si deve dare per scontato l’assunto che la malattia è un oggetto di esclusiva competenza del tecnico, in quanto si ha un conseguente svuotamento della partecipazione della persona malata alla gestione del suo disagio e/o della sua risoluzione: più il disagiato viene responsabilizzatoGLO083 sul suo stato prima potrà giungere all’incontro con se stesso e rendersi conto del motivo che ha scatenato il suo disagio avviandosi, così, verso un processo riabilitativoGLO084.
Le forme di emarginazione sociale cambiano, così come si modificano le forme istituzionali della gestione del fenomeno del disagio. Tutte e due falliscono razionalizzandosi attraverso due modalità: sopravvivendo e sommergendosi.
Si è davanti ad un continuo rincorrersi per superarsi, questa competitività non è basata sulla ricerca delle cause del fallimento, e sulla loro spiegazione, ma su di un mettere da parte gli errori senza averne i presupposti per comprenderli e, perciò, non ripeterli ma solo per superare e cercare di dare “scacco matto” all’”altra parte” perdendo, in questo modo, di vista l’oggetto primario della disputa: la risoluzione del disagio.
Teniamo presente anche che ogni sforzo innovatore incontra molteplici ostacoli oltre che vari impedimenti tecnico-burocratici.
Il riconoscimento interno di un momento d’osservazione può risultare insufficiente, in quanto può non tenere conto dello sviluppo longitudinale della carriera del disagiato, oltre che della rete di rapporti in cui si muove concorrendo al suo riconoscimento (Bagicalupi, Crepet, Levato, 1982BIBLIO006).
Il sintomoGLO091, per questo motivo, deve essere studiato come fenomeno e non deve essere considerato solo come una semplice elencazione di fatti osservati ma come indagine scientifica della descrizione stessa dei fatti, questo perché la scienza del fenomeno presuppone una conoscenza degli oggetti che lo costituiscono, in modo che il tutto venga messo in discussione per venire successivamente confutatoGLO014 (Lacerenza, Cosentino, Scivoletto, 1987BIBLIO036).
E’ necessario creare un sistema informativo in grado di ricevere e sviluppare notizie da ogni punto della rete di rapporti che il disagiato ha messo in piedi.
Si deve, inoltre, attivare negli operatori, e nella gente comune, un processo emancipativoGLO032 del loro ruolo (Bottaccioli, 1982BIBLIO014) piattamente esecutivo e custodialisticoGLO023, modificando e rompendo le norme istituzionali, cambiando gli atteggiamenti ed i comportamenti nei confronti del disagio, rivalutando la soggettività del disagiato riconoscendogli le proprie esigenze.
Gallio e Giannichedda (1982)BIBLIO027 affermano che è da queste pratiche di trasformazione che, nel loro andare oltre le funzioni e le intenzioni programmatiche, rendono un atto necessario oltre che possibile.
La centralità dell’intervento deve, perciò, esercitare una critica su di un processo che non può venire programmato in tutto e per tutto ma che non deve neanche frantumarsi nella superficie delle conflittualità, ripiegando su se stesso, ridimensionandosi e disperdendosi.
VERSO UN NUOVO MODO DI “CURARE” IL MATTO
“Vivendo così tutti insieme, ciascuno si sente malato della sua malattia e di quella degli altri.”
(Un matto, in AA.VV., La fabbrica della follia – relazione sul manicomio di Torino, 1975)
L’obiettivo di qualsiasi innovazione, sia in campo psichiatrico che psicologico, deve mirare al miglioramento del malato, quindi debbono essere lasciati da parte ogni pregiudizio ed ogni preconcetto.
La realtà del malato di mente è, oggi, caratterizzata da una drammatica contraddizione: l’essere elevato a dignità di persona libera sul piano formale del diritto e, nello stesso tempo, di essere abbandonato sul piano assistenziale da parte dei servizi pubblici e dalla solidarietà collettiva (Vicariato di Roma, 1985BIBLIO057).
I motivi di questo abbandono sono inerenti ad una pluralità di cause che sono, nell’insieme, politiche, economiche, culturali, psichiatriche e psicologiche e sono tutte concernenti alla stessa gestione organizzativa ed all’attuazione pratica e programmatica dei concetti della riforma che, per quanto avanzati e nobili nella loro essenza ed intenzione, non trovano un coerente sbocco attuativo nella pratica.
In realtà si cerca di dimenticare e nascondere velocemente quanto si è fatto negli ultimi tempi, ma se esistono i disagiati psichici (e questo nessuno può negarlo) di questa esistenza ne sono, attualmente, solo loro consapevoli, soffrendone insieme alle loro famiglie. Questo fatto è stato provocato dall’esasperata ideologizzazione che si è formata intorno al fenomeno follia.
Mistura (1982)BIBLIO044 afferma che non essendo l’ideologia capace di risolvere il problema questo non va accantonato ma è l’ideologia stessa che deve essere messa da parte.
Il punto centrale del discorso diventa, dunque, lo sforzo di dare all’ideologia una definizione non ideologica in modo di sfuggire alla caratterizzazione delle definizioni tradizionali più consuete, al fine di evitare il rischio che l’ideologia influisca sui giudizi e sulle azioni, adattando i dati e le informazioni ad uno schema di riferimento ideologico.
A questa idea limiteGLO044, naturalmente, è possibile solo avvicinarcisi rappresentando, in questo modo, la realizzazione della “utopia terapeutica”: l’ideologia non dichiarata influisce sul legame che viene a stabilirsi tra le informazioni, modificandone il significato di pari passo con il loro palesarsi.
L’analisi dell’ideologia, dunque, riconduce continuamente il processo terapeutico al complesso delle informazioni originarie ed al momento precedente alla sua gerarchizzazione.
La gestione scientifica dei problemi regge fintanto che le contraddizioni esistenti tra potere scientifico e società, cioè tra la possibilità di servire realmente il cittadino nei suoi bisogni ed il risultato concreto che si pone come risposta a questi, non diventano acute al punto tale di esplodere in modo drammatico (Pirella, 1974BIBLIO047).
Da più di dieci anni i temi della condizione dei ricoverati negli ospedali psichiatrici, e più in generale le condizioni di quelle persone che risiedono in strutture definite istituzioni totaliGLO054, hanno progressivamente permesso di allargare ed approfondire le radici dell’analisi sul disagio psichico e sulla pratica terapeutica (o meno) che su di esso viene messa in atto. Questo fatto avviene non solo nel cerchio degli specialisti del settore ma, anche e soprattutto, con una crescente partecipazione della gente.
Gli operatori scientifici, a questo punto, sono messi davanti ad una scelta: o continuare ad ignorare il problema che è stato aperto dalle contraddizioni, proseguendo nell’abituale gestione e cercando di chiudere le crepe che si aprono continuamente nel muro dell’omertà, oppure iniziare a porsi come problema l’urgenza di un intervento deciso, diverso e diversificato, in quanto ci si rende conto che sia le attuali conoscenze che le consuete prassi rischiano di crollare definitivamente, dopo essere entrate in crisi, travolgendoli.
Tutte e due queste scelte sono solo una risposta alla crisi, oltre che essere un tentativo di un superamento attuato dal mantenimento ad ogni costo del vecchio sistema, nel primo caso, od attraverso una risposta di rinnovamento che si presenta apparentemente come positiva e riassorbente delle contraddizioni, nel secondo caso.
Comunque, la questione sui manicomi è ancora aperta (nonostante che il primo gennaio 1996 è entrata definitivamente in vigore la norma che stabilisce la totale chiusura dei manicomi) e la borghesia, da una parte, non può celebrare su questo terreno nessun trionfo e la critica dell’ideologia della tolleranza, dall’altra, non ha chiuso definitivamente il discorso su di una repressioneGLO082 senza tolleranza: la contenzione fisica è ancora largamente impiegata nonostante vi sia un crescente uso ed abuso degli psicofarmaci.
Conolly (1976)BIBLIO020 nel 1856 affermava che nessun esempio può illustrare con maggiore vigore quanto indurisca l’animo l’essere testimoni abituali della crudeltà, e quale trasformazione subisca il cuore umano quando può esercitare il potere senza assumersene la responsabilitàGLO083.
Probabilmente il tutto risiede nell’astuzia dell’istituzione totaleGLO054, se non della ragione, a rendere spendibili questi schemi e queste interpretazioni, talmente stereotipateGLO094 da diventare dei quadri celebri, come quello che raffigura PinelBIBLIO054 che libera i folli dalle catene a Bicêtre, in cui da una parte si vedono persone sofferenti e dall’altra i medici riformatoriGLO085 che si chinano per liberare, osservare e curare: si chiede all’istituzione, prima di ogni altra cosa, di liberare dai ceppi e dalle catene i malati oggetto di cura.
La malattia mentale non è di per sé una sufficiente ragione per isolare una persona, ogni disagiato psichico è una persona ed ogni persona può diventare disagiato psichico.
La cura e la riabilitazioneGLO084 non sono modalità legate strettamente a tecniche, più o meno specialistiche, ma a modi di agire e di proporsi. La proposizione di un diverso rapporto, che non sia quello a cui il disagiato psichico è stato abituato in lunghi anni di istituzionalizzazioneGLO052, deve partire dall’instaurazione di un corretto rapporto terapeutico.
Se il rapporto terapeutico si instaura su basi strettamente psicoterapeutiche rischia di avviarsi ad un fallimento, in quanto non sarà un rapporto inteso in senso sociale ma uno pseudorapportoGLO076: non ci si deve rapportare con un disagiato psichico seguendo degli schemi prefissati, ma distruggendo quegli schemi che vengono “imposti”, seguendo in questo processo l’oggettività del momento piuttosto che la soggettività.
Modificare uno schema significa intervenire sulla routine, ed in questo senso che l’intervento deve venire prefissato, cercando di fare comprendere al disagiato che l’importante non è rientrare nella normalità quanto imparare a convivere con il proprio disagio senza che questo possa affiorare al punto di disturbare. Questo processo non deve stare, però, a significare la contenzione psichica di una persona ma la sua libertà mentale.
Per “contenzione psichica” si intende tutta una serie di fattori di adattamento non dettati dalla personalità ma dai mass-mediaGLO057: fare certe cose, comportarsi in un certo modo, in tutto e per tutto conforme alla massa, equivale al contenimento psichicoGLO015 e perciò alla non libera espressione del proprio pensiero, equivale a parlare e pensare per schemi prefissati da altri e che, per questo motivo, non appartengono all’individuo.
Per “libertà mentale” si intende, invece, l’uscire fuori dagli schematismi imposti, cercando di fare rispettare ed accettare la propria personalità ed il proprio modo di vivere nel mondo sociale.
Con questo non intendo parlare di anticonformismo, in quanto qualsiasi forma esasperata del vivere è deleteria, così anche l’anticonformismo esasperato diventa un modo conforme di vivere la propria personalità, il proprio anticonformismo-conforme.
Ogni disagiato deve essere assistito ed ogni istituzione totaleGLO054 deve occuparsi, prima di tutto, del benessere della persona, dell’inserimento o reinserimento del disagiato nella società, con tecniche ed operatori adeguati.
Attualmente il riordino del comportamento, inteso come operoso, ordinato, obbediente e produttivo, viene attuato da prima con la repressioneGLO082 ed in seguito con il ricordo della repressioneGLO082, cioè con la minaccia.
Conolly (1976)BIBLIO020, già nel 1856, affermava che questi fatti spiegano l’estrema reticenza nell’ammettere il benché minimo impiego di strumenti di contenzione fisica in un qualunque manicomio. i disagiati una volta ammessi, con qualsiasi pretesto, con il tempo subiranno abusi di ogni genere.
Il rifiuto della repressioneGLO082, cioè il cercare e trovare delle soluzioni alternative più idonee alla gestione del disagio psichico, significa impegnarsi a fare scaturire da discussioni e confronti, sia con gli operatori che con i disagiati che con i loro familiari, la gestione più adeguata del disagio stesso, unitamente all’opportunità che viene lasciata al disagiato di scegliere come meglio desidera l’impiego del proprio tempo e la possibilità, per operatori e familiari, di potere paragonare la propria esperienza con quella del disagiato e viceversa. Questi debbono essere i punti di partenza per meglio comprendere il percorso mentale del folle, per meglio penetrare nel suo mondo.
Conolly (1976)BIBLIO020 ricorda che in genere se si permette che mani e piedi vengano legati, come prassi di ordinaria amministrazione, a discrezione degli operatori si riscontrerà, in breve, nel disagiato un totale processo di regressioneGLO081, dando così innesco ad un processo di trascuratezza e tirannia.
Ricordo che queste parole furono scritte da ConollyBIBLIO020 nel 1856 ma che sono ancora tristemente attuali.
La repressione diventa, gradualmente, il sostituto abituale dell’attenzione, della pazienza, della tolleranza e di una corretta gestione del disagio. Per scoprire e rendere evidente la violenza si deve, innanzitutto, iniziare a negarla: riprendendo in mano quel potere che è stato, da tempo, delegato all’istituzione e che i detentori dichiarano di non “maneggiare” per non sporcarsi le mani.
Il rifiuto dell’ideologia contiguamente al rifiuto della violenza sono, in questo modo, congiunti, atti a favorire una presa di coscienza di ciò che non si deve fare, di ciò che deve essere negato nella situazione concreta.
Per cui, partendo dalla negazione dell’ideologia e della violenza, si giunge alla negazione dell’istituzione, intesa come il luogo in cui ogni persona non decide mai da sola.
Per ciò che riguarda il malato mentale, si deve valutare positivamente non solo l’impegno contro ogni forma di repressione GLO082 ma anche la sua partecipazione, in modo collettivo e non forzatamente, a momenti sociali significativi, considerano come sia una modalità particolarmente importante il rapporto con l’esterno, la ricostruzione storica e collettiva della vita e del mondo del folle.
Se il sistema repressivoGLO082 ha al suo interno tutti i mali possibili, mali inerenti ai maltrattamenti, agli errori terapeutici ed alle omissioniGLO067, così un trattamento “familiare”, le misure preventive, la vigilanza che sono insite nel sistema non repressivoGLO082, fungono da barriera contro la violenza, in quanto la caratteristica del sistema non repressivoGLO082 non è l’assistenzialismoGLO009 ma la riabilitazioneGLO084.
E’ opportuno porre l’accento sul fatto che la sola abolizione dei metodi di contenzione e degli strumenti di coercizioneGLO095 non costituisce, di per sé, un nuovo modo per “curare” il matto. Solo se si accetta e si attua nella sua totalità, il sistema non repressivoGLO082, è un metodo completo di gestione del disagio, che deve iniziare sin dal momento in cui l’individuo varca la soglia dell’istituzione.
E’ fondamentale, nel sistema non repressivoGLO082, avere ben chiaro e non dimenticare mai che, qualunque siano le condizioni del malato di mente nel momento in cui fa il suo ingresso nell’istituzione, lui è li per essere “curato” e, se incurabile, per essere protetto, difeso e tranquillizzato.
A questo punto diventa importante l’effetto combinato dell’impreparazione e della paura che avvolge l’operatore psichiatrico, che fa sì che, tendenzialmente, si accetti un ruolo di contenzione del disagiato, un ruolo che gli viene imposto e che va a compensare la frustrazioneGLO041 che ne deriva, con la rivendicazione di vantaggi economici o della riduzione dell’orario di lavoro, con l’uso ed abuso del potere che gli è stato delegato (AA.VV., 1975BIBLIO001): i metodi di contenzione non producono effetti di cura e di riabilitazioneGLO084!
Si deve, dunque, dare al disagiato l’opportunità di vivere il suo disagio, permettendogli di esprimere le sue sensazioniGLO090, le sue percezioni.
Malagoli Togliatti e Lombardi (1986)BIBLIO039 affermano che è chiaro che la mente non contiene né oggetti né eventi ma solo percezioni, immagini, ecc., trasformate con determinate regole per generare queste trasformazioni.
Si è in presenza, quindi, di due modelli di spiegazione, in cui uno prende in considerazione i possibili contesti di apprendimento, presenti nella storia dello sviluppo della patologia psicoticaGLO073, mentre l’altro focalizzaGLO040 l’esame della comunicazione attuale in un certo contesto interattivoGLO016.
Un discorso prettamente clinico, d’altra parte, non pone la necessaria attenzione ad un discorso sulla comunicazione umana che, per sua natura, è ricca di paradossiGLO070 presenti nelle sindromi transcontestuali, non solo della schizofreniaGLO086 ma anche della poesia e dell’arte in genere.
L’utilizzo riduttivo della teoria della comunicazione costituisce una limitazione ad una ulteriore specificazione e comprensione della situazione interpersonale dello psicoticoGLO080, a cui la teoria del doppio legame offre degli strumenti di analisi che vanno al di la di ogni ricerca eziologicaGLO037. Peccato che, però, questo tentativo teorico si è rivelato inefficace sia da un punto di vista operativo che della pratica psicoterapeutica.
Malagoli Togliatti e Lombardi (1986)BIBLIO039 fanno notare che le ricerche svoltesi sul gioco, sullo humourGLO043, sulla creativitàGLO020, sull’opera artistica e sulla Psicoterapia hanno dimostrato che il paradossoGLO070 è propulsivo, è creativo, fecondo ed a volte anche sconvolgente, quando si tratta di un input che genera confusione ma che non struttura una patologiaGLO072.
Il paradossoGLO070 non è identificabile con il doppio legame, come il doppio legame non è identificabile con il paradossoGLO070: quando lo psicoticoGLO080 usa frasi senza senso non sempre è da catalogare come patologiaGLO072 ma come messaggio paradossale di aiutoGLO059.
Watzalawick (1971)BIBLIO059 afferma che sia la patologiaGLO072 della logica che la patologiaGLO072 della comunicazione umana, sono entrambe generate dal paradossoGLO070, in quanto i messaggi paradossali sistematiciGLO060 e sequenziali nell’esperienza del paziente strutturano contesti di apprendimento tali da veicolare degli schemi (deutero-apprendimentiGLO027), abitudini metacomunicativeGLO061 e comunicative a loro volta paradossaliGLO070 ed incongrueGLO047.
Altro errore epistemologico della teoria della comunicazione è quello derivato dalla convinzione che si possa distinguere una comunicazione “sana” e funzionale da una comunicazione patologicaGLO072 e disfunzionale.
Malagoli Togliatti e Lombardi (1986)BIBLIO039 affermano che il doppio legame viene identificato con il messaggio paradossaleGLO058 della scuola di Palo Alto (California – USA), questa identificazione porta a generalizzazioni poco utili nella pratica.
Il paradossoGLO070 implica un problema di classificazione dal momento che il messaggio viene sdoppiato, riferendosi da una parte ad un fatto e dall’altra, in modo contraddittorio, ad una classe. La ricezione di questo tipo di comunicazione può, a sua volta, cercare di stabilire una pseudofunzioneGLO075, se usa i messaggi contraddittori come se si riferissero allo stesso fatto od alla stessa classe e se nega, o distorce, un messaggio in rapporto all’altro.
Al contempo la caratteristica che distingue un messaggio paradossaleGLO058 è data dal fatto che le componenti del messaggio possono essere sintetizzate in una GestaltGLO042 mediante una metacomunicazioneGLO061 più astratta ed inclusiva.
Queste due componenti contraddittorie del messaggio paradossaleGLO058, ad un certo livello di astrazione, hanno una loro sintesi, non contraddittoria, ad un altro livello.
Ad esempio, se a livello verbale una persona comanda “stai lontano”, sul piano analogico può comunicare “vieni qui”, una persona esterna a questa comunicazione nota la presenza di messaggi contraddittori su livelli comunicativi diversi, chi invece riceve questa comunicazione è la persona adatta a trasformare questi dati.
La sintesi del messaggio paradossaleGLO058 avviene attraverso un globale cambiamento delle relazioni tra le sue componenti, secondo una nuova GestaltGLO042, un nuovo significato ed una nuova struttura.
Il doppio legame, al contrario, si decide su di un elemento dato dal fatto che le sue componenti principali non possono venire trasformate in una nuova GestaltGLO042, riorganizzando in questo modo le relazioni ad un livello logico successivo, in quanto un esame più approfondito a quel livello confermerà la contraddittorietà tra le componenti del messaggio e la nuova cornice, nella quale è possibile inserire la sintesi, è chiusa dalla serie di regole che andranno a stabilire la relazione tra chi pronuncia il messaggio e chi lo riceve (Malagoli Togliatti, Lombardi, 1986BIBLIO039).
L’unico modo per uscire da questa situazione è la possibilità di riesaminare, svelare e ristrutturare i presupposti e le regole della relazione stessa, che è alla base contestuale del doppio legame.
Bateson (1976)BIBLIO008 afferma che la schizofreniaGLO086, il deutero-apprendimentoGLO027 ed il doppio legame cessano di essere oggetti della Psicologia individuale per diventare parte della ecologia delle idee, in sistemi e “menti” i cui limiti non coincidono più con le epidermidiGLO033 degli individui partecipanti.
Per Benedetti (1980)BIBLIO009 le esperienze prodomiche sono una cornice di riferimento psicodinamica nella discriminazione del delirioGLO024, in assenza di difese.
Nel momento in cui il mondo “cade” direttamente sull’Io, infatti, quest’ultimo non ha modo di riorganizzarsi e di ricostruirsi in senso difensivo.
Se uniamo tutto questo alla teoria del secondo gruppo psichico (Freud, 1975aBIBLIO026) ci accorgiamo di come il “contatto” prima e la ricerca di una riabilitazioneGLO084 poi non possono prescindere dalla comunicazione, verbale e non verbale, paradossaleGLO070 e non paradossaleGLO070, che lo psicoticoGLO080 da/riceve alle/dalle persone, al/dal mondo circostante.
Si apre, così, una nuova ottica sulla concezione del disagio psichico, priva di ideologizzazioni ma fondata sulla pratica clinica quotidiana.
L’individuo, prima di entrare in un meccanismo psicoticoGLO080, avverte qualcosa di “strano” nel suo interno, una “strana agitazione” che lo “preoccupa”, questo stato possiamo definirlo “allarme psicoticoGLO080”. Se si supera una certa soglia si entra in uno stato “prepsicotico”, dove si cerca di resistere al superamento del confine sanità/malattia, sostituendo al proprio stato un meccanismo di azione e resistenza per cui l’individuo si chiude in se, non dorme, si sente costantemente osservato ed escluso, dà segni di costante nervosismo, non cura più il suo aspetto fisico, ecc., questa fase, se non superata, porta al vero e proprio “meccanismo psicoticoGLO080” (Lacerenza, 1987BIBLIO036).
Tutte e due queste fasi, stato prepsicotico e meccanismo psicoticoGLO080, passano per una terza fase: l’esaurimento del disturbo, dove l’individuo sembra riprendersi.
Si tratta, però, solo di una ripresa momentanea, che prepara ad un’esplosione più incontrollata ed incontrollabile. Questo acting-outGLO003 porta alla perdita della consapevolezza del ruolo, che riveste un’importanza fondamentale nell’equilibrio psichico ma che spesso, grazie alle pratiche puramente assistenzialisticheGLO009 e non riabilitativeGLO084, viene vissuto non come novità svuotandosi, così, di significato.
A questo punto si può definire, semplicisticamente, la malattia come mancanza di un compito e la salute come capacità di soddisfare il compito stesso. Questa affermazione, però, pur nella sua veste semplicistica connota un fondo di realtà.
Non è marginaleGLO055, infatti, che proprio quando si richiede una prestazione di responsabilitàGLO083, quando cioè all’individuo arrivato ad un certo punto della sua vita si richiede una crescita sociale e culturale, si manifestano i primi sintomiGLO091 psicoticiGLO080.
Questo è a dimostrazione di come il momento patogeneticoGLO071 del disagio psichico non è in un supposto elemento traumatizzante ma nel meccanismo con cui questo meccanismo turba l’incontro con il sociale (Lacerenza, 1986BIBLIO036).
L’evoluzione del disagio trova, dunque, l’individuo impossibilitato ad un’azione libera nel quotidiano. Questo fatto, unito agli avvenimenti precedenti l’elemento traumatizzante, non fa altro che provocare successivi errori, senza che l’individuo riesca ad orientare nel giusto verso l’azione sociale e personale.
L’INTERVENTO RIABILITATIVO
“Domani mattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate ricordare e riconoscere che, nei loro confronti, la vostra superiorità è soltanto una: la forza.”
(dalla lettera inviata, negli anni venti, dal Movimento Surrealista ai Direttori dei Manicomi)
Alla disperata aspettativa dei disagiati psichici non basta contrapporre la palingenesi rivoluzionaria ma si deve rispondere con azioni immediate che richiedono un duro, frustranteGLO041 e contraddittorio lavoro quotidiano, compiuto con la consapevolezza della permanente insufficienza e provvisorietà di ogni risultato parziale (AA.VV., 1975BIBLIO001).
Queste parole rinchiudono in loro tutto ciò che significa fare un intervento riabilitativoGLO084: non essere mai sicuri che il risultato evidente sia poi quello finale.
Ogni volta che un disagiato psichico fa un millimetro in avanti, come crescita, risocializzazione e riabilitazioneGLO084, si deve essere sicuri che questo millimetro in avanti non significhi un metro indietro.
Prima ancora di parlare della riabilitazioneGLO084, però, è opportuno sottolineare alcuni aspetti sull’istituzione totaleGLO054 e sul chi vi è rinchiuso.
L’istituzione totaleGLO054 non sostituisce una cultura univoca ad un qualcosa di già formato ma, bensì, si ha a che fare con una realtà più limitata del processo di acculturazioneGLO002 e di assimilazioneGLO007.
In accordo con Goffman (1980)BIBLIO029 si può affermare che se avviene un cambiamento culturale questo è legato alla rimozione di certe possibilità di comportamento ed al mancato tenersi al passo con gli ultimi mutamenti sociali, che avvengono nel mondo esterno.
A chi non è mai stato in un Ospedale Psichiatrico risulta difficile comprendere il significato di questa affermazione, posso cercare di semplificarne il concetto.
La lunga permanenza nelle istituzioni porta ad un processo destabilizzanteGLO074, che possiamo definire desocializzazioneGLO026, inteso come perdita delle capacità fondamentali quali il comunicare correttamente ed il cooperare con gli altri, portando la persona all’incapacità di padroneggiare anche le più elementari situazioni del vivere quotidiano nel mondo esterno, qualora abbia la possibilità di “rientrarci”.
L’individuo, dunque, si trova a perdere alcuni ruoli a causa della barriera che lo separa dall’esterno. Ruoli che in precedenza ne è stata sottolineata l’importanza.
Le istituzioni totaliGLO054, quindi, spezzano e violentano proprio quei fatti che nella società hanno il compito di testimoniare, a chi agisce ed a chi è rivolta l’azione, che si è in grado di gestire il proprio mondo, cioè che si è una persona che gode pienamente dell’autodeterminazioneGLO010.
Goffman (1980)BIBLIO029 afferma che è il non mantenimento di questa maturità ed abilità, a livello esecutivo, a produrre nel ricoverato la paura di venire sradicato dal sistema, secondo il quale ad ogni età corrisponde un graduale sviluppo nella maturità individuale: ogni espressione del proprio comportamento è significato del proprio modo di autodeterminarsiGLO010.
Nell’istituzione totaleGLO054 la prova della propria autonomia viene vanificataGLO100, o nei migliori dei casi indebolita, da certi obblighi specifici, o quando il proprio comportamento viene utilizzato come l’evidenza del proprio disagio.
Un’espressione evidente dell’impotenza personale è riscontrabile nell’uso del linguaggio, inteso come mezzo per trasmettere indicazioni sulle azioni da intraprendere: per esempio, colui che riceve un ordine viene ritenuto in grado di ricevere un messaggio e di tradurlo in un’azione atta a concretizzare il “suggerimento” o la consegna.
Questo è uno dei tanti paradossiGLO070 dell’istituzione totaleGLO054: il disagiato non è ritenuto in grado di avere una propria autodeterminazioneGLO010, ma nel momento in cui riceve l’ordine, viene ritenuto in grado di eseguirlo e perciò di autodeterminarsiGLO010.
Altro aspetto importante nelle istituzioni totaliGLO054 è la spersonificazione, infatti, ciò che il ricoverato rappresentava prima di entrare in un’istituzione totaleGLO054 adesso non riveste più alcun significato reale: ciò che era non influenza minimamente il giudizio sulle sue capacità e qualità personali attuali.
L’istituzione totaleGLO054, che in questo è coerente con se stessa, tende a sviluppare un senso di ingiustizia comune, un senso di rivalsa ed amarezza verso il mondo esterno, infatti, molti ricoverati non vogliono uscire dall’istituzione anche se ne hanno la possibilità. Questo fatto è un passo molto significativo nella carriera del ricoverato.
Goffman (1980)BIBLIO029 ci viene in aiuto per meglio comprendere questo meccanismo, in quanto afferma che in un certo senso il sistema sociale, che si viene a creare tra i ricoverati, viene vissuto come un qualcosa che provvede ad un modo di vivere tendente a rendere l’individuo capace di evitare gli effetti psicologici distruttivi dell’interiorizzazione e della conversioneGLO019 del rifiuto del mondo esterno, il rifiuto di se stessi.
In pratica, il disagiato rifiuta chi lo ha rifiutato piuttosto che rifiutare se stesso, essendo meno capace di proteggere il proprio Io e dirigendo in questo modo l’ostilità verso l’esterno. Si hanno così forme di adattamento all’ambiente che in molti casi significano regressioneGLO081.
Innanzitutto abbiamo il rinchiudersi in se stessi. Quando, cioè, il disagiato ritira l’attenzione da tutto, riducendo il suo vivere solo agli eventi relativi al proprio essere, vedendo questi eventi in una prospettiva del tutto diversa dagli altri: la riduzione nel coinvolgimento degli eventi esterni che richiedono una partecipazione prende il nome di regressioneGLO081.
Questo adattamento forma un continuumGLO018 unico, per gradi diversi di regressioneGLO081 e, nonostante le pressioni messe in atto per smuovere un disagiato da questa condizione, questo processo risulta per molti versi irreversibile.
Un altro meccanismo di difesa è l’intransigenza: quando cioè il disagiato sfida intenzionalmente ed apertamente l’istituzione, rifiutando la collaborazione con il personale.
Goffman (1980)BIBLIO029 nota che da questo meccanismo ne risulta un comportamento individualistico ed il costante rifiuto richiede, spesso e per certi versi, il mantenimento di un interesse nei confronti dell’organizzazione istituzionale formale e, quindi, paradossalmenteGLO070 un profondo coinvolgimento nell’istituzione.
L’intransigenza solitamente è solo una fase iniziale e temporanea di adattamento, in seguito il disagiato tende a ritirarsi dalle situazioni e spostare il suo comportamento verso altre forme di adattamento.
La colonizzazioneGLO013 è un terzo meccanismo di difesa messo in atto dal ricoverato: si riferisce a quella parte di realtà che l’organizzazione istituzionale costruisce ad hoc per il disagiato, che vive questo processo come se si trattasse di una vera e propria realtà.
Il disagiato viene a costruirsi, in questo modo, un’esistenza stabilizzata apparentemente e relativamente “felice”, prendendo dall’istituzione tutte quelle “soddisfazioni” che essa può offrirgli.
L’esterno serve solo come punto di riferimento, a dimostrazione di come l’istituzione, la vita istituzionale, sia “desiderabile”, diminuendo così la tensione tra le due dimensioni (Interno/Esterno) favorita dall’impedimento di motivazioni.
L’ultimo meccanismo di difesa dall’istituzione, messo in atto dal ricoverato, è la conversioneGLO019: il disagiato assume di sé il giudizio che gli altri danno di lui recitando, così, il ruolo del ricoverato.
La differenza tra colonizzazioneGLO013 e conversioneGLO019 sta nel fatto che mentre nella prima l’individuo si costruisce un mondo, per quanto gli è possibile, libero, sfruttando i pochi vantaggi ottenibili e non perdendo, in questo modo, l’aggancio con il reale, nella conversioneGLO019 il disagiato segue strettamente la linea istituzionale della disciplina, moralisticamente e monocromaticamenteGLO064, evidenziando, sia con gli operatori che con le altre persone, la sua completa disponibilità ed il suo entusiasmo di “essere ricoverato”.
La conversioneGLO019 è, il più delle volte, il campanello di allarme della cronicizzazioneGLO022, quando cioè una persona inizia ad adottare il comportamento degli operatori.
Questo meccanismo si concretizza, quasi sempre, per colpa degli operatori stessi che vivono l’istituzione come un ideale, ed offrono al disagiato l’opportunità di una vita fatta su di un modello di comportamento che viene ritenuto, da chi lo propone, come messo in atto nell’interesse del disagiato stesso.
Prima ancora di passare a vedere cosa è e come si esplicaGLO035 un intervento riabilitativoGLO084 è opportuna un’ultima notazione sulla crisi.
Resnik (1986)BIBLIO050 afferma che la crisi sta ad indicare, nella medicina ippocratica, il punto culminante della malattia, un punto critico che doveva decidere sul successivo andamento del processo verso un miglioramento dello stato o verso un peggioramento della situazione.
Il termine crisi implica l’idea di una separazione che porterà ad una trasformazione, in pratica la crisi è un momento di verità: negli psicoticiGLO080 è, sempre, un momento di massima lucidità.
Può sembrare paradossaleGLO070 ma gli psicoticiGLO080 entrano in crisi proprio nel momento in cui si rendono conto della sofferenza: è quello un momento migliore per agire su di loro, cercando di trasformare quel momento in crescita.
Ed eccoci, finalmente, a parlare di riabilitazioneGLO084.
L’articolo 34 della Legge 833 (D.P.R. del 28/12/1978) afferma che:
“Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazioneGLO084 relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e dai presidi territoriali extraospedalieri”.
Continua affermando che:
“La legge regionale nell’ambito delle UU.SS.LL.GLO099: e nel complesso dei servizi generali per la tutela della salute, disciplina l’istituzione dei servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitativeGLO084 relative alla salute mentale”.
Si deve innanzitutto partire da un presupposto: ciò che caratterizza un corretto, nel senso di adeguato, processo riabilitativoGLO084 non è tanto il riuscire a discriminare le informazioni, operazione in sé importante, quanto il dargli una valenza che le organizzi in gerarchie, il più possibile aderenti all’ordine della realtà piuttosto che a quello soggettivo.
Semplificando, e come vedremo meglio in seguito, nell’ambito della riabilitazioneGLO084 è possibile individuare tre diversi livelli tra loro interdipendenti.
Nel primo livello è possibile estrapolare cinque tappe intermedie, attraverso cui si muove il discorso riabilitativoGLO084: screening dell’utenza, ricostruzione della storia personale del disagiato, rapporti con gli operatori, ricerca sul tessuto sociale di provenienza, ricerca di soluzioni extraistituzionali (Lacerenza, Paesani, 1986aBIBLIO036).
Nel secondo livello vi sono compresi ex degenti con problematiche di cronicitàGLO021 istituzionale e con residenza in vari contesti.
Il terzo livello è, invece, rappresentativo di situazioni di cronicitàGLO021 o di processi di cronicizzazioneGLO022 senza l’avallo asilareGLO005.
E’ chiaro che i diversi interventi dovranno essere calibrati alle specifiche situazioni sia personali che contestuali.
Risulta evidente che il processo riabilitativoGLO084 si delinea come un cammino a tappe interdipendenti è, perciò, utile sintetizzare in tre settori d’intervento l’analisi del rapporto che si deve intrattenere con il versante della riabilitazioneGLO084.
Questi livelli sono; la risocializzazione, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo, la soluzione alloggiativa.
Con il termine “risocializzazione” ci si riferisce a tutti quei progetti finalizzati al recupero della dimensione sociale del paziente, sia in termini di riscoperta della propria dimensione storica, sia in termini di riappropriazione della modalità interelazionale e dei contesti di vita da cui nel passato si è stati espulsi.
Il colloquio individuale e continuativo con il disagiato permette l’instaurarsi di un nuovo rapporto con caratteristiche di accettazione e tolleranza e, conseguentemente, permette l’emergere di quei bisogni, profondi e personali, che sono stati sradicati o negati all’individuo.
Si può intuire che questo “nuovo rapporto” potrebbe costituire una modalità-guida, con funzioni di “specchio” e di comparazione, rispetto a tutti i nuovi rapporti che il disagiato deciderà di intrattenere.
Altro punto importante nel processo di risocializzazione è la possibilità di svolgere periodi di “vacanza” strutturata con modalità diverse da quella asilareGLO005, attraverso la quale sperimentare un nuovo modello gestionale e mettersi così alla prova.
Questa “vacanza” deve prevedere l’affitto di appartamenti, in condomini, e l’elaborazione di uno stile quotidiano in cui disagiati ed operatori convivono secondo un codice di comportamento comune, al fine di garantire al paziente la possibilità di scandire con ritmi più personali, e non asilariGLO005, il quotidiano ed offrendogli, così, l’opportunità di esprimersi nella sua totalità senza essere subordinato a quei condizionamenti quali il tempo del colloquio e le regole dettate dall’istituzione.
Come visto in precedenza, qualsiasi persona costretta a vivere in una situazione istituzionale od in un contesto rigidamente programmato e scandito su di un codice di comportamento impersonale, presenta aspetti di regressioneGLO081 nella sua funzionalità, traducendosi in una contrazione dell’espressione verso livelli patologiciGLO072, per cui il disagiato risulta essere compromesso sia in termini di motricità che di capacità logico-verbali.
Anche questa considerazione va tradotta in termini pratici per cui, per quanto riguarda l’aspetto motorio, questi individui appaiono svantaggiati sia a livello di motricità, posture non corrette, stereotipie gestualiGLO093 ecc., sia a livello di schema corporeo e d’immagine di se stessi.
Articolare un programma di riapprendimento del proprio vissuto corporeo, come corsi di nuoto ed attività ludico-sportive, è una risposta in questo senso.
Le capacità logico-verbali sono strettamente legate al processo di riappropriazione della propria autonoma modalità espressiva. Si tratta, perciò, di elaborare una situazione in cui, con insegnanti messi a disposizione dal Provveditorato agli studi, si articoli un corso di “Alfabetizzazione” volto al recupero dei livelli di apprendimento primario, quali il leggere, lo scrivere e fare di conto, mai appresi o persi nella lunga istituzionalizzazioneGLO052.
Nel processo di risocializzazione possono esservi altre occasioni importanti, come l’elaborazione di un laboratorio teatrale dove è possibile ritagliare aspetti contemporanei di manualità e di elaborazione concettuale, coinvolgere i disagiati negli aspetti relativi alla certificazione dei documenti (carta d’identità ad esempio) od al disbrigoGLO030 delle pratiche amministrative come la pensione sociale, la possibilità di partecipare ai momenti comunitari del territorio, sia in termini politico-culturali (assemblee, biblioteca, ecc.) che in chiave strettamente effimera (feste popolari, manifestazioni sportive).
Il “reinserimento lavorativo” e quello “alloggiativo” sono i due terminali naturali dell’intervento riabilitativoGLO084.
Per ciò che riguarda il “reinserimento lavorativo”, e considerate le difficoltà del mercato del lavoro sia in termini legislativi che di opportunità, si arriva alla conclusione che l’unica possibilità lavorativa per i disagiati è l’associazione spontanea sotto forma di Cooperativa di produzione e/o servizi.
Per arrivare, però, a formare una Cooperativa si deve seguire un cammino articolato su quattro livelli: espressività, formazione professionale, alternanza formazione-lavoro ed immissione lavorativa.
Per “espressività” si deve intendere la creazione di un contesto non formalizzato, sia come spazi che come attrezzature, in cui il disagiato può vivere una situazione di stimolo ai suoi bisogni più elementari, quali la riappropriazione dello spazio, del movimento e della creativitàGLO020.
La “formazione professionale” è il momento decisamente più pregnante di questo processo. A questo livello il laboratorio va strutturato secondo spazi e regole molto precisi: non deve più essere tollerato il vagare del disagiato da una situazione di espressività ad un’altra e l’intero ciclo, che dalle materie prime porta alla costituzione del manufatto, va suddiviso in spezzoni completi e, quindi, l’insegnamento, che deve essere a cura di maestri, artigiani e/o tecnici dei vari settori, va scandito secondo unità didattiche.
Nel terzo livello, “alternanza formazione-lavoro”, si deve arrivare a scandire una situazione in cui il disagiato deve essere sensibilizzato ad un’analisi di tutte le problematiche connesse al mercato del lavoro, quali l’offerta di possibilità lavorative, la concorrenzialità, il diritto ed il dovere del lavoratore.
A questo livello, il disagiato, deve essere introdotto in un’evenienza di verifica della propria produttività e commercializzazione.
Ultimo anello e “l’immissione lavorativa”. Questo è anche il momento che comporta maggiori difficoltà in quanto crea ansia ed aspettative, sia in termini di scommessa che di riuscita.
Lo strumento offerto dalla forma cooperativistica, come detto, è al momento l’unica soluzione possibile, pur con tutte le incertezze che vi sono nel decollo dell’iniziativa. La forma cooperativistica è, però, anche lo strumento più corretto per evitare tutte le pastoie dell’ottica assistenziale.
Per meglio affrontare il problema della “soluzione alloggiativa” è opportuno suddividere i disagiati in tre fasce. Alla prima fascia appartengono quelle persone che mostrano un alto livello di regressioneGLO081 e, considerando il loro livello particolarmente grave (oltre al fatto che per la maggior parte si tratta di anziani, handicappati fisici con problemi di incontinenzaGLO048, psicoticiGLO080 gravi), non è ipotizzabile una struttura alloggiativa libera: l’unica soluzione soddisfacente è l’immissione in altre istituzioni sul tipo di quelle per anziani.
Altra possibilità per i regreditiGLO081 è quella di costituire una Comunità Terapeutica, dove sia possibile ospitare un certo numero di disagiati con personale socio-sanitario preparato ad hoc e con il rapporto di un operatore ogni tre pazienti.
La seconda fascia comprende le persone parzialmente autosufficienti: a questo livello è già possibile costituire alloggi strutturati tipo Casa Famiglia.
Questo tipo di soluzione prevede, però, uno stretto rapporto con il Dipartimento di Salute Mentale al di fuori della situazione, nel senso che gli operatori del Dipartimento di Salute Mentale non vivono con i disagiati salvo che in momenti “occasionali” quali visite di controllo, colloqui individuali e collettivi, situazioni di crisi.
Ai disagiati, che rientrano a questo livello, viene lasciata una maggiore possibilità di gestione ed autonomia personale.
All’ultima fascia afferiscono quelle persone che, pur denotando un’adeguata autonomia personale, si dimostrano in difficoltà sul versante interpersonale. Per questo è importante fare un discorso a due livelli.
Da una parte si dovrebbe arrivare ad un contesto alloggiativo in cui la persona in crisi, che necessita di un periodo di distacco dalla situazione tensiva della quotidianità protattasi nel tempo (ad esempio difficoltà con il nucleo “familiare”) possa venire ospitato per il periodo necessario alla ricomposizione della crisi. Dall’altra parte, per tutti quei disagiati che hanno bisogno di un loro spazio autonomo, al di fuori di qualsiasi contesto di vita in comune con altre persone, la soluzione ideale sarebbe la ricerca di un alloggio indipendente.
L’inserimento di queste persone in regime di coabitazione risulterebbe dannoso, e limiterebbe l’esplicarsiGLO035 del processo riabilitativoGLO084: queste situazioni sono simili a quelle di una coppia in una situazione affettiva od a quelle situazioni in cui un individuo si sente garantito sul piano personale dal potere usufruireGLO098 di un contesto indipendente.
Ho precedentemente accennato a tre livelli su cui si esplicaGLO035 la pratica riabilitativaGLO084, guardiamoli ora da vicino.
Prendendo per buona la suddivisione fatta da me e Paesani (1986a-b)BIBLIO036, per comodità, possiamo definirli: manicomiale, territoriale ed ambulatoriale.
Il livello manicomiale si riferisce a quei disagiati ancora ricoverati in Ospedale Psichiatrico, la cui suddivisione caotica ha come risultato un’incoerente prassi operativa, con danno sia a carico della salvaguardia della salute psicofisica che della dignità umana della persona, con conseguente spersonalizzazione, nessun tentativo di recupero, una vuota routine quotidiana, sia a carico del personale (medico e paramedico) in termini di confusione ideologica, frustrazioneGLO041 professionale e Sindrome del Burn-Out.
Da questo è possibile estrapolare le cinque tappe intermedie da cui muovere l’intervento riabilitativoGLO084.
La prima tappa è lo “screening dell’utenza” in cui si deve potere disporre di un censimento esatto dei lungodegenti ospitati in Ospedale Psichiatrico, cosa non così facile come può sembrare, suddivisi per territorio di appartenenza.
Successivamente i disagiati debbono potere essere contattati, ed attraverso l’analisi delle cartelle cliniche, altra impresa all’Indiana Jones, e dei colloqui svolti non solo con il disagiato ma anche con il personale sanitario, ed eventualmente con familiari e parenti, debbono venire suddivisi in una delle fasce prima definita: regreditiGLO081, parzialmente autosufficienti ed autonomi.
Cerchiamo di comprendere meglio il significato di queste tre fasce, e di come debba essere fatta questa suddivisione.
I regreditiGLO081 sono quelle persone a cui la lungodegenza ha prodotto, ed ancora produce, un livello di disgregazione tale che i parametri dei rapporti personali e sociali passano attraverso i canali che, dalla Psichiatria accademico-nosograficaGLO001, vengono definiti schizofreniciGLO087, psicopaticiGLO077, depressiGLO025, asocialiGLO006, ecc. (Lacerenza, Paesani, 1986aBIBLIO036).
I “parzialmente autosufficienti” sono quelle persone che, pur avendo subito un iter istituzionale lungo, conservano un nucleo di contatti e di rapporti personali e sociali tali che, anche se non sviluppati ed agiti secondo un codice di comportamento accettato e definito “normale”, gli ha permesso di non venire totalmente disgregati nella loro soggettività.
Per “autonomi” si intendono quelle persone che sono riuscite a conservare, nonostante la degenza in un contesto istituzionale totalitario, una loro soggettività sia individuale che sociale.
La seconda tappa del processo riabilitativoGLO084 è “la ricostruzione della storia personale”, una diretta conseguenza dello screening.
E’ d’importanza fondamentale ricostruire e ridare una dignità personale e sociale alla storia del disagiato, in modo da fare riemergere quella soggettività e quei livelli contraddittori che, anche se in diversa maniera, travagliano tutti ma che l’istituzione totaleGLO054 riesce così sapientemente ed implacabilmente ad annullare.
La storia di uno si trasforma nella storia di tutti. Le abitudini, le fantasie e le opinioni vengono sostituite dall’impersonalità, dall’appiattimento, dall’assunzione di regole ed entusiasmi assurdi e sconosciuti: la persona viene così trasformata in un numero, vestita da una diagnosi imperscrutabileGLO046.
La terza tappa è rappresentata dai “rapporti con gli operatori”. Pur nutrendo molti dubbi sull’onestà professionale di molti operatori psichiatrici, è opportuno evidenziare una contraddizione che è propria di questo ruolo: gli operatori psichiatrici rappresentano da una parte la continuazione di quei meccanismi e funzioni che hanno dato corpo e sostentamento alla tradizione negativa dell’asilo istituzionale e, contemporaneamente, si pongono come gli eredi, legittimi o meno, di quella controcultura che ha prodotto la Legge 180 (Lacerenza, Paesani, 1986aBIBLIO036).
Da questo tipo di confusione all’impasseGLO045 il passaggio è rapido, per cui gli operatori psichiatrici si trovano a “combattere” con l’impotenza e la rassegnazione, oltre che ad agire su di una realtà scleroticaGLO089 e stagnate, ben consapevoli di “non possedere la lancia che uccide il leone”.
Da qui nasce l’esigenza di rapportarsi con loro con una modalità corretta e non prevenuta, cioè rispettandone il livello esperenziale ed elaborando con loro un canovaccioGLO011 teorico-operativo comune, attraverso il quale incidere sia sulla realtà “chiusa” sia sulla reciproca crescita professionale.
La “ricerca del tessuto di provenienza” è la quarta tappa dell’intervento riabilitativoGLO084: consiste in un lavoro svolto più in chiave sociale che clinica.
Si debbono, cioè, reperire informazioni rispetto alla trama sociale del disagiato, in modo di sapere se ha familiari e/o parenti ancora in vita, oppure conoscenti ed, eventualmente, quale tipo di rapporti intercorrono con loro. Si deve, inoltre, appurare la matrice culturale di provenienza del disagiato.
Questo tipo di ricerca, oltre a valutare la condizione socioeconomica potenziale del disagiato, quali l’eredità, la pensione e immobili di sua appartenenza, ed a comprenderne le modalità di gestione (in genere sono i parenti che se ne “occupano”). In questo modo si può aggiungere un altro tassello al mosaico della sua storia nascosta.
L’ultima tappa del livello “manicomiale” è la “ricerca di soluzioni extraistituzionali”, che dovrebbe essere il successivo e logico passo finale di tutto il cammino riabilitativoGLO084, dovrebbe rappresentare la mappa che il territorio di provenienza del disagiato possiede, in termini di atteggiamenti di accettazione e tolleranza o, viceversa, di esclusione di tutte quelle possibilità sia a livello alloggiativo, quali il reinserimento nella famiglia di origine od in un’abitazione di proprietà, in una Comunità terapeutica, il reperimento di contesti da destinare alla costituzione di Case Famiglia, pensioni ecc., sia lavorativo, contatti con fabbriche, aziende, artigiani, cooperative, tirocini di lavoro.
Il secondo livello, individuato insieme a Paesani (1986a-b)BIBLIO036 è quello “territoriale”.
La caratteristica predominante degli utenti, che afferiscono a questo livello, è quella di un’appartenenza ad una realtà territoriale e non più ad un’istituzione asilareGLO053. Questo può essere tradotto in una maggiore possibilità di scandire la quotidianita secondo ritmi più personale.
E’, comunque, chiaro che il fantasma interno del vissuto istituzionale continua ad essere presente: in questo senso l’intervento riabilitativoGLO084 deve venire differenziato dal precedente livello, sia come obiettivi che come metodologia di intervento.
Le persone appartenenti a questo livello rientrano in quelle categorie precedentemente definite autosufficienti ed autonomi.
Questa suddivisione, però, non equivale alla dimostrazione che non è possibile incontrare situazioni disperate e con livelli di conicità strutturati, in quanto molti disagiati ripercorrono fatalmente quei meccanismi e quei canali patologiciGLO072 tipici dell’iter psichiatrico, attraverso i quali si approda ai diversi contesti dell’istituzione totaleGLO054.
Questi luoghi, anche se in modo negativo in quanto classificano comunque il paziente come devianteGLO028, sopperiscono al suo bisogno di sicurezza, di identità e coscienza di sé, creando quindi una condizione che viene ricercata in quanto conosciuta, dando così vita ad un circolo vizioso che è sempre più difficile da spezzare.
E’ come se non esistesse una dimensione temporale, come se il passato fosse un lungo presente, come se la storia fosse sempre all’anno zero (Goffman, 1980BIBLIO029).
Comunque la validità delle cinque tappe intermedie, esposte per il livello manicomiale, valgono anche per questo livello.
Il livello “ambulatoriale” è forse quello più curioso, in quanto viene da pensare che l’ambulatorio, definito in diversi modi nelle varie realtà regionali, non abbia e non crei problematiche di cronificazioneGLO022.
Quasi sempre, però, il Dipartimento di Salute Mentale viene a conoscenza di situazioni psichiatriche a diversi livelli di gravità, attraverso canali piuttosto disparati, quali vicini di casa, familiari, medico di base, specialisti, segnalazione di terze persone, comunicazioni di cliniche.
Non essendo, però, lineare l’equazione che lega la gravità del caso alla proporzionalità della durata della degenza in un’istituzione, anche in questo livello è possibile incontrare situazioni particolarmente gravi di cronicitàGLO021 quale, ad esempio, una famiglia che copre e sommerge la patologiaGLO072 di un proprio congiunto mediante una pratica di convivenza quotidiana assolutamente antiterapeutica, attraverso la quale la persona portatrice di una sintomatologiaGLO091 (o paziente designato) regredisceGLO081 sempre più drammaticamente.
Contemporaneamente a ciò risulta rigida ed impoverita la vita degli altri conviventi, del resto assolutamente incapaci di sottrarsi allo sviluppo psicopatologicoGLO078.
In teoria, quindi, su questo livello si dovrebbero situare solo quei disagiati precedentemente definiti “autonomi”, nella realtà si riscontrano una gamma piuttosto ampia e diversificata di situazioni, per le quali il servizio territoriale è il naturale referente, esplicandoGLO035 una funzione di filtro tra strutture sociosanitarie di base competenti per ruolo e mansioni, pur fornendo il suo apporto per ciò che concerne aspetti di carattere psichiatrico.
Risulta chiaro che deve sussistere un collegamento tra il Dipartimento di Salute Mentale e gli altri servizi territoriali che compongono la trama strutturale dell’assistenza sociosanitaria di una Unità Sanitaria Locale.
E’ auspicabile, anche, un accordo tecnico-operativo con i comitati di quartiere, le sedi dei partiti e dei sindacati, con le strutture presenti nel territorio e che costituiscono le associazioni culturali e sportive di base.
In questo modo il confluire di esperienze e capacità permette una traduzione pratica di una professionalità interdisciplinare, dando sinergia ed obiettivi a tutte quelle strutture che indirizzano le loro forze verso un miglioramento della qualità della vita.
L’esplicamentoGLO035 delle tappe intermedie deve essere visto con particolare riferimento agli ultimi due punti: ricerca sul tessuto di provenienza e ricerca di soluzioni extraistituzionali.
I diversi interventi vanno calibrati alle specifiche situazioni, sia personali che contestuali, in quanto l’obiettivo finale dell’intervento riabilitativoGLO084, visto da un piano clinico-terapeutico, è l’inserimento lavorativo ed alloggiativo, mentre la risocializzazione si pone solo come obiettivo intermedio.
Questo quadro, auspicabile a tutti i livelli, può essere compromesso dalla pesante incidenza di alcune particolari condizioni, come i livelli patologiciGLO072 o le scarse possibilità offerte dal contesto territoriale.
Il risultato potrebbe riguardare una limitazione degli obiettivi, per cui nel caso di un disagiato particolarmente regreditoGLO081 l’obiettivo intermedio (la risocializzazione) diventa l’obiettivo finale.
Questo che ho delineato è, sicuramente, un progetto d’intervento riabilitativoGLO084, articolato in fasi interdipendenti, valido per molte situazioni, come tutti i progetti di massima, però, il piano verticale teorico va confrontato con il piano orizzontale attuativo.
Si deve, dunque, essere prudenti nell’estrapolare i livelli fin qui individuati, oltre che porre cautela nella loro applicazione tout-courtGLO096 ad esperienze e situazioni particolari.
La realtà ci insegna che dalle linee programmatiche generali va ritagliato un progetto preciso per una precisa utenza e/o contesto, in considerazione che ogni persona è diversa dall’altra e che le situazioni possono essere simili ma non identiche.
Diventa, quindi, indispensabile verificare a scadenze fisse ciò che si propone e ciò che effettivamente si ottiene con l’intervento riabilitativoGLO084.
Nel caso che esista un corposo divario si dovrà mettere in pratica un piano di modificazione ed un processo di ricalibrazione dell’intervento stesso.
Anche a questa ricalibrazione deve seguire un riscontro, in considerazione che la verifica dell’operato è la condizione ineliminabile del buon operare (Lacerenza, Paesani, 1986bBIBLIO036).
CONCLUSIONI
Ho affermato, nella Introduzione, che questo testo non dovrebbe avere inizio. Forse, però, l’inizio è questo: la fine.
Questo in quanto spero che ciò che ho scritto sua di riflessione, non solo sulla malattia mentale ma sulla malattia in genere.
Non volevo chiarire quali differenze intercorressero tra disagio e malattia, ne se è il disagio a generare la malattia o la malattia a generare il disagio.
E’ ovvio, però, che in un contesto di disagio è più semplice che si crei una situazione di malattia, come è ovvio l’inverso, cioè che da un contesto di malattia si generi una situazione di disagio.
E’, peraltro, vero che disagio e malattia, anche se non in senso strettamente patologicoGLO072, sono due concetti appartenenti alla cultura di un determinato gruppo sociale e che ogni contesto sociale ha il suo concetto di questi termini.
Ciò che è indiscutibile è che l’istituzionalizzazioneGLO052 non perdona, ed è altrettanto tragicamente paradossaleGLO070 doversi stupire che un malato non ne esca distrutto, come accade di norma.
Due persone che ne sono uscite distrutte sono Raffaele Mellucci e Lidia Parati, a cui ho dedicato questo testo: due pazienti dell’Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
Queste due persone, da me conosciute personalmente, hanno seguito un iter istituzionale senza una ragione ben precisa e non ne sono più uscite.
I pazzi hanno un destino peggiore dei carcerati: vengono rinchiusi senza saperne il motivo e non sono neanche a conoscenza di quanto durerà la loro esclusione dalla società.
Non esiste, perciò, una conclusione in questo testo, esistono solo dei ricordi che ho ancora vivi. Uno di questi va ai miei colleghi del Progetto Sperimentale Fondo Sociale Europeo/Regione Lazio di RomaGLO062, con cui ho letteralmente “inventato” l’intervento riabilitativoGLO084 prima esposto.
Sotto i nostri occhi si è svolta, quotidianamente per quattro anni (dal 1982 al 1985) la storia parallela di persone che al successivo smascheramento di tutte le tecniche scientifiche istituzionali, ipocritamente proposte per evitare ma in realtà necessitate a confermare ed a fare scontare la “condanna” inflitta ai disagiati psichici.
Abbiamo provato e siamo riusciti a cambiare qualcosa: la risposta è stata il licenziamento!
Concludo con una frase di un ex ricoverato, tratta da AA.VV. La fabbrica della follia (1975)BIBLIO001:
“Spero se tutti voi Avete un po di cuore vi farete un piccolo pensiero e potete sapere cosa voldire in un simile collegio dove ciè solo quattro Mura e non potete vedere il mondo Aperto e felicie”GLO092.
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